SANTO LOMBINO
Cinquanta anni fa non si parlava molto della giornata internazionale dei diritti della donna, che oggi è conosciuta e celebrata in tutto il mondo. A Bolognetta l’8 marzo 1971 fu un giorno particolare, con una manifestazione di massa che bloccò ogni attività del paese, dalla scuola ai cantieri, coinvolgendo quasi tutta la popolazione attiva, molti giovani, donne e ragazzi. Il corteo era stato indetto per protestare per quanto stava accadendo: erano arrivate in quasi tutte le famiglie le lettere dell’INPS e dell’INAM che chiedevano di restituire le somme che i braccianti agricoli avevano percepito per le spese sanitarie (medicine e ricoveri ospedalieri) e come sussidi di disoccupazione: a volte si trattava di decine di migliaia di lire. Come mai arrivavano queste lettere?
La storia è lunga. In
una seduta dell’assemblea Regionale siciliana l’on.le Pio La Torre aveva
affermato: ”I fatti cominciano nell'estate del 1965. Alla vigilia di Ferragosto
del 1965, esattamente il 14 di agosto, sul Giornale di Sicilia, comparve un
comunicato ufficiale della prefettura e una dichiarazione del prefetto che
annunziava che era stata disposta una vasta indagine di polizia giudiziaria,
tramite l'Arma dei Carabinieri, per sottoporre ad una revisione generale gli
elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli e per condurre accertamenti di
polizia su tutti gli iscritti agli elenchi anagrafici. Si affermava, fra
l'altro, che vi erano prove sufficienti, secondo cui quindicimila cancellati, a
quella data, non svolgevano attività comunque attinenti all'agricoltura. Si
aggiungeva infine che si sarebbe proseguito con gli stessi metodi nell'opera di
cancellazione fino alla totale eliminazione degli abusivi dagli elenchi anagrafici
dei lavoratori agricoli.” Tale iniziativa del prefetto Giovanni Ravalli aveva
lo scopo reale di “chiudere i rubinetti” dell’assistenza da parte del governo,
per diffamare intere categorie di lavoratori e spingere i cittadini a prendere
la via dell’emigrazione.
Negli stessi anni a Bolognetta
si era scatenata una guerra tra notabili, amministratori, dirigenti politici,
con lettere anonime e denunce, che utilizzarono anche la situazione dei
braccianti agricoli. La maggior parte dei maschi e una parte delle donne di
Bolognetta lavorava effettivamente alle dipendenze di proprietari terrieri in
campagna e si era iscritta negli “elenchi anagrafici” dei braccianti (abituali,
occasionali o eccezionali), unica strada che consentiva di avere medicine e
cure gratuite e, nei periodi di disoccupazione, dei discreti sussidi. C’era un
ufficio di collocamento e c’era una commissione che doveva vagliare se le
persone che chiedevano l’iscrizione erano o no veramente braccianti. Ad un
certo punto fu chiaro che era solo una minoranza che abusava della legge e
chiese o fu aiutata a iscriversi nelle liste pur esercitando il mestiere di
artigiano, lavascala o casalinga. Questo avveniva perché molti datori di lavoro
in vari settori, ma specialmente nel settore edile allora in grande espansione,
assumevano le persone in nero e non le volevano mettere in regola,
costringendole a cercare soluzioni di ripiego. L’abuso serviva anche come
strumento clientelare per avere il consenso dei cittadini al momento del voto.
Come avvenne a Villabate, S. Cipirrelllo e Corleone, nell’ambito di una
indagine del Comando provinciale e della Tenenza dei carabinieri di Misilmeri,
anziché distinguere il vero dal falso o dall’incerto, si arrivò alla
incriminazione per truffa aggravata di più di 500 persone di Bolognetta su una
popolazione di 700 famiglie e 2.300 abitanti. Data la situazione gravissima che
si determinava con l’inchiesta, si occuparono ripetutamente del problema i
giornali locali. L’avvocato Salvo Riela con lo pseudonimo di Curculio sul
giornale “L’ Ora” di Palermo si domandò sarcasticamente: ma se 500 persone,
praticamente tutta la forza attiva della popolazione del comune non appartiene
ai lavoratori della terra, sarà che sono tutti pescatori e che Bolognetta è
diventato un paese di mare?
Questa indagine
scatenò la protesta dei bolognettesi, che erano scesi in piazza nella primavera
del 1969 con una manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro. Quello
sciopero venne disturbato dal contemporaneo intervento delle camionette degli
accalaccapiani che quel giorno catturarono per le strade del paese decine di
cani randagi o da caccia. Qualcuno avanzò il sospetto che tale iniziativa fosse
stata sollecitata da qualcuno che aveva interesse a “distrarre l’attenzione “
dai problemi reali dei lavoratori.
Nel febbraio del 1971
anziché aspettare la fine dell’istruttoria del Tribunale che si preannunciava
lunga e travagliata, l’Istituto della Previdenza sociale e quello
dell’Assistenza Malattie chiedevano a tutti gli indagati di restituire le somme
“indebitamente percepite”.
Esplose la rabbia dei
bolognettesi, che si riunirono in animate assemblee pubbliche (nel salone
parrocchiale di Piazza Matrice concesso dal parroco Salvatore Cannizzaro) e
portarono alla convocazione di uno sciopero generale per l’8 marzo, con un
manifesto affisso sui muri che si intitolava L’Assemblea dei Braccianti e
finiva “Questo è solo l’inizio - la lotta continua!”. Sin dalle prime ore
dell’alba di formarono picchetti all’uscita del paese che informarono chi non
lo sapesse della manifestazione e dei motivi di essa: furono pochissime le
persone che riuscirono a superarli e a recarsi al lavoro in città. La quasi
totalità, uomini, donne, ragazze e ragazzi, si riunì in piazza Matrice di
fronte alla sede del Comitato Braccianti (oggi Agesci) e diede vita all’animato
corteo. Gli altoparlanti diffondevano la canzone che diceva:
“Questo schifo qui
deve finire!”
un bel giorno i
braccianti hanno detto
i ruffiani e i
politicanti
non si devono più
presentar.
La denunzia che ci
hanno mandato
ha uno scopo
premeditato:
dalla terra che noi
lavoriamo
il governo ci vuole
cacciar.
Il furore e
l’indignazione erano veramente al massimo. Per questo, in poche decine di
minuti il corteo, gridando slogan e agitando cartelli, aveva attraversato a
gran velocità le vie della processione: si decise allora di ripetere il
percorso. Alla fine vi fu un incontro al Municipio con una delegazione di
lavoratori e consiglieri comunali, che in tarda mattinata si recò a Palermo per
affrontare il problema con i dirigenti dell’INPS. Nel pomeriggio la delegazione
tornò, riferendo all’assemblea che quell’Istituto poteva al massimo rateizzare
le somme richieste. Ma furono pochissimi quelli che restituirono le somme e si
dichiararono colpevoli prima della sentenza del Tribunale. L’anno successivo si
svolse un’altra manifestazione, che portò i braccianti su un pullman
organizzato dalla Federbraccianti a protestare davanti alla sede INPS di via
Laurana, i cui dirigenti avevano ormai capito che da Bolognetta non potevano
aspettarsi nulla di quanto chiedevano.
Qualche mese dopo il
tribunale di Palermo emise la sentenza di rinvio a giudizio: la maggior parte
degli imputati fu assolta con varie motivazioni, una parte fu amnistiata e solo
poche decine dovettero andare in giudizio nel 1981, quando la sentenza di
assoluzione riguardò anche loro. Intanto, con quella indagine condotta “con
criteri davvero scriteriati” (così scrisse il giudice istruttore Buogo nelle
seicento pagine della sentenza di rinvio a giudizio) lo scopo dell’”operazione
Ravalli” era raggiunto e la maggior parte della forza lavoro cercò occupazione
nell’edilizia o nei servizi (portierato, pulizia scale) a Palermo e provincia o
prese la via dell’emigrazione nell’Italia del nord (Milano, Torino, Ventimiglia
di Imperia) e all’estero. La civiltà contadina aveva cessato di esistere.
Nelle immagini: tre momenti della manifestazione
dell'8 marzo 1971,
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