Storie di un esodo di massa, di radici strappate e di un’emigrazione che ha desertificato il Sud impoverendone il già povero tessuto. Ragazzi partiti tra gli anni Settanta e Novanta dalla Sicilia perché non c’erano alternative e saliti al Nord per trovare un posto di lavoro. I primi furono i vincitori di concorso. Poste, Ferrovie, cancellerie di tribunali, uffici pubblici. Un’integrazione difficile (vedi la parola “terroni ») e possibile solo a costo di rinunciare a pezzi della propria identità culturale. Un libro coinvolgente, quello di Enzo D’Antona, e dal tema sempre attuale se si pensa che negli ultimi 20 anni, dal 2000 al 2020, dal Sud al Nord sono andati a vivere 2.700.000 persone….
***
«Le nostre vite (…) sono asimmetriche, non rispondono a un criterio logico, a una sequenza, a una attitudine o a un talento personale. Non si sa mai chi parte e quando parte, si conosce solo il perché. Il perché è un posto di lavoro». Per trovare quel posto di lavoro, o un posto comunque meglio pagato, dal dopoguerra a oggi ogni 10 minuti di ogni giorno un abitante della Sicilia si è trasferito nel Nord dell’Italia. Centinaia di migliaia di persone, interi paesi di cintura a Milano, Torino e Genova sono nati come enclave di immigrati. Prima risucchiati dalle grandi aziende lombarde e piemontesi e dall’edilizia in piena espansione ed esplosione (il 90% della manodopera era meridionale), poi con la crisi dell’industria da un lato e la maggiore alfabetizzazione dall’altro “sparandosi” a caso dove li aveva destinati un concorso nella vasta, pletorica rete della pubblica amministrazione e del parastato.
Alla
emigrazione contadina aveva fatto seguito quella del piccolo ceto nei primi
decenni del ’900, poi la fuga aveva cominciato a coinvolgere masse di
diplomati, infine dei laureati: una ascesa culturale
senza contropartita sociale ed economica, stabile invece l’unica “salita”,
quella verso le regioni del Nord pronte a usare braccia e teste scansando con
brutale odiosità le persone in quanto tali, i “terroni”.
Un esercito fatto da
generazioni di “spaesati”, come intitola il suo bellissimo libro uno di loro,
Enzo D’Antona, partito da Riesi in provincia di Caltanissettaper
imboccare una strada nel giornalismo che l’ha condotto prima alla Sicilia, poi
all’Ora di Palermo, quindi a Milano al prestigioso settimanale Il Mondo (dove,
dice la biografia, si è occupato di intrecci tra affari, politica e criminalità
organizzata), e di seguito a Repubblica, capo
della redazione di Palermo, e caporedattore all’Ufficio centrale di Roma.
Infine direttore nei giornali del gruppo Espresso, La città
di Salerno e Il Piccolo di
Trieste.
Dunque una «deportazione». Un «genocidio culturale senza fine»,
«un destino che incombeva su di noi». E che ha desertificato il Sud (e certo
non solo la Sicilia), impoverendo il già povero tessuto, dove la famosa Cassa
del Mezzogiorno (Casmez giornalisticamente stringendo) aveva prodotto
risultati solo nella prima fase.
Scrive D’Antona: «Fino al
1965, con una dotazione di cento miliardi di lire all’anno, in tutto il Sud si
crearono 23 mila chilometri di acquedotti e 40 mila chilometri di reti
elettriche, oltre a strade, scuole e ospedali». Poi la deriva, risorse sparse a
pioggia e «la maggior parte dei profitti, certo con la complicità della pessima
classe dirigente meridionale, andò a finire a imprenditori veri e finti del
Nord». Gli impianti chimici di Termini Imerese, spiaggiati senza mai entrare in
funzione, si conquistarono un’etichetta sprezzante: «La Comica del
Mediterraneo», «Chimed, sei miliardi di ruggine».
È l’atto
d’accusa che proviene da questo memoir durissimo
nei temi sostanziali, ma assai affabile, simpatico, umano e malinconico nel
fitto ritessere – anche con bonaria ironia se serve – vite, vicissitudini,
sofferenze, fatiche e coraggio di tanti che, nel giro di ventiquattro ore
(tanto durava un viaggio negli scassati e sovraffollati treni creati apposta
per gli emigranti siciliani), si vedevano trasformati in
«brutti, sporchi e cattivi», «ignoranti, violenti e portatori di malattie», e
maltrattati, offesi, dileggiati, male alloggiati, sfruttati, spersi in una
solitudine ghettizzante che D’Antona paragona a quella degli attuali migranti
extracomunitari, gli ultimi di oggi, che hanno promosso i meridionali a
penultimi, nel catino sempre ben riempito del bisogno e del razzismo. E a poco
serviva la linguistica vendetta dei vari Fernando, Crocifisso detto Fifo (e
anche “Mavalà” per via di una buffa esperienza sessantottina), Milziade,
Liborio detto Borino, Gnazio, Artemio, Silvestro, Gianrosario, Domenico (favolosa
la storia dei nomi, della loro origine e tradizione familiare, e dei
soprannomi) di definire “polentoni” lombardi e piemontesi, oppure di indicare
chiunque del Nord, da Bologna in su, come “il coglione di Bergamo”, senza
offesa per Bergamo in quanto tale.
Il libro
è la storia, viva e vivace oltre che naturalmente in sé drammatica, di un
gruppo di giovani nati in un paese in provincia di Caltanissetta che D’Antona
non chiama Riesi, ma camuffa – per mischiare un po’ le storie – col nome di
Judeca. E questa Judeca, via via che la gente parte, prima i padri e
poi i figli, e a catena i cugini, altri parenti, altri amici, fidanzate che
diventano mogli, assume, per la grazia del racconto, il profilo di un luogo
quasi mitico. Questo gruppo di bambini, poi giovani e adulti di cui l’autore è
uno, vivevano tutti nelle palazzine popolari dell’Unrra Casas
costruite dagli americani nel dopoguerra, dodici appartamenti per i dipendenti
pubblici: «Su dodici famiglie almeno dieci avevano famigliari emigrati». Secondo
il censimento del 1971 a Judeca risultavano 40 mila nati e 14 mila residenti.
Il resto case vuote. Nel decennio 1961-’71 se ne andarono dalla Sicilia in 700
mila nota lo scrittore-giornalista: «Una devastazione economica, sociale e
culturale».
Parte da lì
questa che non è una autobiografia, ma una biografia collettiva narrata in
prima persona, che nel pretendere una “narrazione” diversa e onesta non solo
dei meridionali ma proprio dell’Italia malata e spezzata, stratifica molti
discorsi, colmando un altro tassello delle tante storie di emigrazione di
cui esistono un’eco e un’epica: i migranti in America, i
migranti in Belgio morti nelle miniere di Marcinelle, i migranti accolti in
Germania con progetti di rotazione, i migranti in Svizzera, i profughi
istriani, gli emigrati in Australia, i veneti migranti dappertutto, i friulani
in fuga dalla fame.
C’è qui la denuncia di una
condizione sociale, con lo spopolamento progressivo dei paesi siciliani, una
desertificazione in cui la mafia ha amplificato i propri spazi, c’è il costante
contrappunto dei principali eventi politici e di cronaca italiani (dai vari
governi agli omicidi di mafia, dalla «marcia dei 40 mila» alla Fiat, al
terrorismo, al rapimento e all’uccisione di Moro), e ci sono le canzoni del
tempo che attraversano le vicende personali di una folla di judecani, definiti
«api operose» per come hanno saputo resistere, inventarsi e reinventarsi e
anche riprodurre nelle loro periferie pezzi e profumi del paese d’origine.
Non si
trova, in questa analisi-racconto, un anatema contro l’evidente incapacità del
Sud di liberarsi dai cancri mafiosi, si parla come di un dato di fatto della
malapratica delle raccomandazioni politiche per la conquista di un posto, e
anche si giustifica il frequente «darsi ammalati» per guadagnare un giorno di
riposo in più, con l’accusa allo Stato di aver sfruttato l’esodo meridionale
senza avergli riconosciuto, in termini di conguaglio di qualche tipo, una
indennità di disagio.
Si leva
invece alto e forte l’offeso risentimento verso «l’odio razzista» dei
settentrionali, poi alimentato dalla Lega di Bossi, a partire dalla quale
«chiunque lo volesse si è poi sentito in diritto di nutrire legittimamente
sentimenti anti-meridionali e manifestarli apertamente. Come se noi e ciascuno
di noi personalmente – scrive D’Antona -, fossimo l’origine di tutti i mali del
Nord e dell’Italia intera». E ancora: «Noi meridionali che eravamo gli
sfruttati all’improvviso siamo diventati gli sfruttatori, quelli che pretendono
di vivere alle spalle del Nord».
La
«contro-antropologia», che già di per sé suppone che l’una parte d’Italia sia
più che straniera all’altra, si incarna nelle singole vicende, alcune delle
quali restano scolpite. C’è la storia di Fernando, il cui
padre postino – che stranamente si chiama Laerte – decide per questo figlio
un’istruzione pari a quella degli Agnelli, e dopo averlo mandato al convitto
riservato ai postelegrafonici a Pesaro, lo spedisce da parenti a Torino per
frequentare il prestigioso liceo D’Azeglio, dove il ragazzino subisce
l’emarginazione più totale e bocciature conseguenti nonostante il
disperatissimo studio, e così torna a Judeca, si laurea in seguito in Medicina,
e per rivalsa tornerà a Torino e diventerà il dentista dei “vip” che dimorano
nell’esclusivo quartiere di Crocetta, portandosi dietro schiere di fratelli e
sistemandoli tutti.
E c’è la
lunga avventura di Fifo, operaio alla Fiat che vive assieme
allo zio Angioletto, ormai lì diventato caporeparto. Sfiorato ma fortunatamente
non catturato dalle blandizie del brigatismo rosso, quando Romiti annuncerà
licenziamenti e «cassa» per migliaia e il 14 ottobre 1980 si scatenerà la
contromanifestazione pro-azienda dei «40 mila», sarà tra gli scioperanti, e
incrocerà brutalmente lo zio nel corteo opposto, ma la frattura politica non
incrinerà l’affetto che li lega. Perché poi è questo un altro degli ingredienti
forti: i legami parentali stringono gli “spaesati” in una enorme famiglia
allargata dove è sempre in funzione quella che D’Antona chiama «Radio
mio cugino». Le voci corrono sul filo, e se c’è un bisogno il soccorso arriva
di slancio.
Di questa generosità è
un’icona il signor Gombo, riparatore di tv, «un
eroe» agli occhi di D’Antona bambino e dei suoi amici. Aveva otto figli, e suo
cognato il ragionier Garritano era arrivato a nove. Con la sua 600 il signor
Gombo portava al mare (45 minuti di viaggio andare, altrettanti tornare) tutti
i ventuno componenti delle due famiglie, caricandoli a turno assieme a
ombrelloni e cibarie: «A fine giornata il signor Gombo aveva percorso quella
strada dieci volte e aveva assicurato una domenica di vacanza alle due
famiglie». Ma nessuno di quei ventuno è rimasto a vivere a Judeca, son partiti
in massa un lunedì mattina dopo la giornata di mare. D’Antona ritroverà il
signor Gombo quindici anni dopo a Cinisello Balsamo, tutta abitata da
emigranti: vive in una stessa casa a più piani con la sua grande famiglia e con
quella del cognato, allargate a nuore, generi e nipoti, quasi la riproduzione di
un falansterio, dove ciascuno sa fare un mestiere e dà una mano gli altri, una
cellula di «socialismo utopico» che si è ricreato a prescindere dalla bolgia
esterna, dal divario Nord-Sud che non si è colmato e casomai è peggiorato, come
ci intima di ricordare fino alla fine l’autore che, innestando saldamente il
giornalismo d’inchiesta sul racconto narrativo, infila pure qualche perla di
poesia, un tocco quasi felliniano. Quando saltuariamente uno degli spaesati,
incontrando uno sconosciuto dall’aria ancora più spaesata, gli si avvicina
chiedendo: «Sei sardo?». E quello invariabilmente risponde «no», magari con
accento sardo.
Gabriella
Ziani
altritaliani.net
- il ponte rosso, 16 marzo 2021
Recensione
già apparsa sul giornale web di cultura dei nostri amici del Ponte rosso di
Trieste, frutto di volontariato e passione come Altritaliani – N. 65 di
febbraio 2021. Potete
scaricarlo gratuitamente QUI. Diversi articoli sono molto
stimolanti.
IL
LIBRO:
Enzo
D’Antona
Gli
spaesati
Cronache
del Nord terrone
Zolfo
editore, Milano 2020
Data di
uscita: 11/2020
200 pp,
euro 17,00
Nessun commento:
Posta un commento