MICHELANGELO INGRASSIA
Un evento inquietante che lega due date simboliche: la Giornata dell’Unità d’Italia e la Giornata della memoria e dell’impegno contro le mafie. La storia delle relazioni pericolose tra lo Stato e la criminalità organizzata inizia alla vigilia della proclamazione del Regno d’Italia, sulle ceneri del primo morto ammazzato dalla mafia dei feudi.
La sera del 3 marzo 1861, a Santa Margherita Belice, tre fucilate uccisero a pochi passi da casa Giuseppe Montalbano, 42 anni, fervente mazziniano e protagonista della rivoluzione palermitana del 1848. Montalbano, che partecipò pure all'impresa dei Mille combattendo nelle campagne di Salemi, dopo il decreto garibaldino del 2 giugno 1860 — relativo alla ripartizione delle terre demaniali ai contadini — rivendicò, a capo dei braccianti margheritesi, tre feudi spettanti al Comune ma usurpati dalla principessa Giovanna Filangieri con la complicità del ceto agrario e baronale locale già legato al governo borbonico.
Il delitto fu preceduto da
una serie di minacce e avvertimenti a Montalbano e alla sua famiglia. A esso
seguì una sommossa popolare di due giorni, culminata nell'assalto al Municipio
di Santa Margherita Belice dove si erano rifugiati alcuni tra coloro che erano
stati indicati da vari testimoni quali esecutori del criminale agguato.
È inquietante riflettere
sul fatto che il delitto avvenne quattordici giorni prima della proclamazione
del Regno d'Italia (17 marzo 1861) e cinque mesi dopo il plebiscito unitario
siciliano (21 ottobre 1860). Eppure, nonostante queste singolari coincidenze,
la storia di quello che possiamo definire come il primo cadavere eccellente
dell'Italia unita sembra dimenticata se non ignorata, tranne una meritoria
citazione nel sito della «Fondazione Giovanni Falcone». Nella storiografia
risorgimentale, infatti, sono poche le tracce che conducono alla vicenda: un
articolo di Nicola Giordano nella rivista «Il Risorgimento in Sicilia»
(Palermo, luglio-dicembre 1966) e un articolo di Giuseppe Quatriglio in
«Cronache Parlamentari» (Palermo, agosto-settembre 1986) il cui titolo, «Con
Garibaldi poi contro le cosche» è emblematico. C’è infine tutta una
documentazione conservata presso l'Archivio di Stato di Palermo e la Società
Siciliana di Storia Patria che il nipote della vittima, l'ex parlamentare
comunista Giuseppe Montalbano, ha raccolto in tre importanti monografie: La
sommossa contadina margheritese del marzo 1861 e il Risorgimento in Sicilia (Palermo
1982); Topi, Cavour, liberali nel Risorgimento in Sicilia (Palermo
1987); Cavour borbonico(Palermo 1989).
Attraverso le fonti
d'archivio, Montalbano nipote ha sostenuto la tesi che «nel marzo 1861 e nei
mesi successivi gli organi competenti — procuratore del Re presso il Tribunale
di Sciacca, polizia e carabinieri dell'intero circondario — non svolgono alcuna
attività per scoprire i colpevoli dell'assassinio di mio nonno». Si tratta di
organi del potere esecutivo il cui capo, all'epoca del delitto e nei mesi
successivi, è «Cavour, quale primo Presidente del primo Governo dello Stato
italiano unitario».
Certo, l'immagine
raffigurata da Montalbano di un Cavour complice, più o meno consapevole, di
quella che Francesco Renda, nel primo volume della sua opera Storia
della Sicilia dal 1860 al 1970, ha definito «mafia dei
feudi», può apparire suggestiva; va tuttavia ricordato che il delitto avvenne
in un momento politico complicato per Cavour, che lo vide impegnato a evitare
che i democratici e i repubblicani, attraverso l'impresa garibaldina,
«sorpassino» i liberali. In tale contesto si può convenire con il Montalbano
quando sostiene che Cavour, pur di assicurarsi i favori della casta latifondista
già legata ai borbonici e timorosa delle eventuali rivendicazioni dei
repubblicani, preferì chiudere gli occhi su un crimine che, tutto sommato, era
maturato in una realtà estranea a quella piemontese. Forse in questo senso il
quotidiano di Sinistra «Il Precursore» del 9 marzo 1861, nel commentare
l'agguato, denunciava: «Ecco che ce ne viene dall'imprevidente garanzia che si
è voluta accordare ai borbonici». Forse per questo, prima di morire, lo stesso
Montalbano, in una lettera al colonnello garibaldino Giuseppe Oddo datata 23
febbraio 1861, scriveva che «il governo del Re cerca traversare le nostre
aspirazioni [...] bisogna convenire di essere traditi».
Qualche anno dopo, in una
lettera all'amico Ubaldino Peruzzi datata 20 gennaio 1863, Michele Amari
sosteneva che ormai «in Sicilia i reggitori, succedutisi troppo rapidamente e
tutti della provincia subalpina, con le loro idee di governo antico e stabile,
han fatto all'amore con i borbonici»; delineando così quella situazione che in
seguito Tomasi di Lampedusa avrebbe tradotto nella nota frase: «cambiare tutto
per non cambiare nulla».
L'inerzia e l'indifferenza
del governo di Cavour, documentate da Montalbano junior nei suoi libri,
impongono alcune riflessioni. Innanzitutto il connubio mafia-politica si è
ambiguamente intersecato con la storia d'Italia fin dagli albori della sua
Unità; anche quella colpevole mentalità d'indifferenza, da parte dei governi
centrali verso la realtà siciliana, nasce con l'Italia unita; cosi come sin da
allora matura quella sottovalutazione del problema mafioso nella classe
dirigente nazionale.
È significativo rilevare,
infine, che quei medesimi organi di governo inerti a proposito del delitto
Montalbano, furono abbastanza solerti nel reprimere brutalmente la sommossa di
Santa Margherita Belice, dove i braccianti avevano denunciato mandanti, movente
ed esecutori del crimine mafioso ma furono perseguitati da quello stesso Stato
per il quale avevano lottato nella speranza di conquistare la libertà dal
latifondo, dalla prevaricazione e dal bisogno.
Michelangelo Ingrassia
www.esperonews, 21/3/21
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