di PIERO MELATI
La sera del 26 febbraio del 1979 i rumori abituali di viale Campania vengono spezzati, alle 21 e 15, da quattro colpi di pistola. Cade, sotto i colpi di una calibro 38, il giornalista Mario Francese, 54 anni, cronista giudiziario del " Giornale di Sicilia". Si apprestava a tornare a casa, come ogni sera. Il killer, in abiti eleganti, dopo il delitto salta sull’Alfa blu dei complici e scompare verso via Trinacria. L’inchiesta ci dirà che a sparare è stato il boss Leoluca Bagarella, stesso sicario - cinque mesi dopo - del vicequestore Boris Giuliano. Si apre così, con l’omicidio di un giornalista, il lungo decennio degli " anni di piombo" siciliani.
Terrorismo sull’informazione. Nove anni prima era scomparso un altro
giornalista, stavolta de "L’Ora", Mauro De Mauro. Ma cosa avevano in
comune i due colleghi? Il lavoro sul campo, un marchio di qualità di quella
generazione. Ai loro tempi, le carte giudiziarie venivano depositate in tempi
biblici e non era affatto agevole studiarle. Di più, i rapporti tra giornalisti
e " fonti" erano ancora formali e distaccati. Difficile che qualcuno
ti passasse "dritte" sottobanco. Così le notizie dovevano essere
scovate in strada, incrociando le fonti più svariate. Le intuizioni, il fiuto,
la sveltezza, lo scrupolo della verifica, facevano la differenza. Mauro De
Mauro, per esempio, aveva intervistato davanti a un albergo palermitano il boss
siculo- americano Lucky Luciano, facendogli lungamente la posta. E Mario
Francese, dal canto suo, era stato il primo a parlare con Antonietta Bagarella,
moglie del futuro "capo dei capi" corleonese Totò Riina e sorella del
suo futuro assassino, inseguendola per i corridoi del tribunale.
Tutto lavoro sul campo. Non era ancora arrivato il tempo del " copia e
incolla" di carte giudiziarie negli articoli giornalistici. E nemmeno
quello in cui procure e questure erano considerate le uniche fonti. Nello
stesso modo Francese aveva lavorato sulla strage di Ciaculli, sullo scandalo
della diga Garcia, sull’omicidio del colonnello Russo ( bosco della Ficuzza,
1977) e, soprattutto, sull’eliminazione del boss di Riesi Giuseppe Di Cristina,
un " padrino" di primo piano. Dopo quest’ultimo delitto, Francese
intuì che si preparava una guerra fra le cosche, innescata dal clan dei
corleonesi. Ma come lo scoprì?
Mario Francese, siracusano di nascita, nel 1958 aveva sposato Maria Sagona,
con la quale avrà quattro amatissimi figli ( uno, Giulio, è oggi il presidente
dell’Ordine dei giornalisti siciliani). Maria è una bella ragazza nata a
Campofiorito, un piccolo paese affondato nelle campagne nei pressi di Corleone.
La zona è citata nei libri di storia per le imprese guerriere di Federico
II, che proprio da queste parti eliminò le ultime sacche di resistenza araba in
Sicilia. Mario Francese si era innamorato subito del luogo, intrecciando solide
amicizie e trascorrendovi spesso le estati. E naturalmente, da buon cronista,
qui aveva raccolto (ben prima degli stessi inquirenti) le prime confidenze
relative a una ancora segretissima scalata dei " corleonesi" ai
vertici di Cosa Nostra siciliana.
Finirà per farci un dossier giornalistico, sull’ascesa del clan di Riina, i
cui tempi ritardati di pubblicazione saranno oggetto di dibattimento
giudiziario, in particolare sulla esistenza o meno di una "talpa" che
avrebbe potuto avvertire lo stesso Riina del pericolo: mai, prima di allora, il
nome di Totò " u curtu" era apparso su un giornale. Per tutti era
ancora un "picciotto" di Luciano Liggio, considerato il capo
indiscusso dei corleonesi. E invece, le gerarchie si stavano rovesciando.
Fino a quel 1979, per altro, i Provenzano, Riina e Bagarella erano ritenuti
l’ala "campagnola" di una mafia che aveva ben altri quarti di nobiltà
( i Greco, i Bontate, i Badalamenti). Ma Francese aveva capito che
qualcosa stava cambiando. Dal 1970 il nuovo business della mafia siciliana era
stato il traffico internazionale di droga con gli Usa. Per questo scopo le
raffinerie erano state trasferite da Marsiglia in Sicilia. La torta del nuovo
affare, però, dentro Cosa Nostra, non veniva equamente spartita. Così Riina
stava promettendo a tutti gli affiliati nuovi guadagni, in cambio di una guerra
ai vecchi boss, che invece «mangiavano da soli».
Francese avvista l’inizio di questa nuova epoca. Si accorge che non solo
negli Stati Uniti ma ora anche in città l’eroina inizia a correre a fiumi,
insieme ai nuovi " narco- soldi". Il motivo? Riina ha appena dato il
via libera agli " uomini d’onore" di fornirsi di spacciatori e
vendere liberamente quel veleno in strada, anche a Palermo, anche in Sicilia,
anche in tutta Italia, facendo scomparire " militarmente" dalla
piazza ogni altro tipo di droga leggera, per imporre il nuovo, letale prodotto
della mafia.
Mario Francese, ancora una volta, cerca verifiche sul campo. Stavolta
direttamente nel cuore di Palermo. Chi l’ha conosciuto bene ricorda che,
in quei mesi, il cronista si recava spesso nei vicoli segreti di quartieri
quasi mai battuti, dove solo lui aveva libero accesso e dove era anche ben
accolto, grazie alla sua capacità di mimetizzarsi e decifrare linguaggi e segnali.
In tribunale, intanto, si cominciava a chiacchierare: ma perché questo Francese
lavora così? Che vuole fare, le inchieste prima di "sbirri" e
magistrati? L’arte della calunnia, in Sicilia, precede sempre gli omicidi più
"eccellenti".
Il delitto di Mario Francese cambiò tutto. Per Cosa nostra l’informazione
era diventata " materiale sensibile": bisognava a tutti i costi
controllarla. Prima che si muovessero i sicari, l’ipotesi dell’omicidio venne
ventilata in più sedi. " Delitto annunciato", come si suol dire. Da
allora avverrà sempre più spesso. Il figlio Giuseppe, giornalista, si toglierà
la vita a 36 anni, dopo avere cercato ostinatamente la verità sulla morte del
padre. Attorno a lui, per anni, tante insinuazioni volevano che l’esecuzione
del genitore fosse avvolta da una certa " opacità". Così, ancora
oggi, non sappiamo quante volte Mario Francese sia stato ucciso più di una sola
volta.
La Repubblica Palermo, 27 gennaio 2021
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