di Ezio Mauro
Fausto Bertinotti, già segretario di Rifondazione comunista, torna ai giorni di Livorno in cui nacque il Pci: "Turati aveva torto, la rivoluzione è stata una magnifica occasione persa"
Fausto Bertinotti, 80 anni. Lei è stato presidente della Camera, segretario di Rifondazione comunista, ma prima ha militato nel Pci e nel Psi, quindi conosce bene le due anime della sinistra. A Livorno, nel 1921, dovevano dividersi per forza?
«Capisco che questa sia da sempre la grande questione. Ma la storia che è venuta dopo ci dice che non c’era altra possibilità che la divisione, già consumata nel biennio rosso e nell’occupazione delle fabbriche. Ogni volta, due risposte diverse, una dei comunisti, una di tutti gli altri: erano i germi della scissione».
Lei è sempre stato su posizioni di sinistra radicale. Ma oggi, quando sente
il discorso di Turati a Livorno, non pensa che avesse ragione? Il socialismo si
costruisce non con un colpo di scena improvviso, ma con una continua conquista
graduale: non è così?
«Francamente no, sebbene io sia non solo rispettoso, ma devo dire
affascinato dalla forza e dalla dedizione alla causa di Turati. Detto questo,
devo aggiungere tre parole: Turati ha torto».
Perché?
«Turati è rimasto all’Ottocento, quando il movimento operaio nascente
costruisce la coppia lavoro-socialismo, con le Società di mutuo soccorso, le
Case del popolo, le Camere del lavoro, le cooperative. Ma non si accorge che
questa storia finisce agli albori del Novecento, quando si impone la coppia
Marx-rivoluzione. Turati ragiona come se si potesse dimenticare l’Ottobre,
l’evento che cambia il Novecento».
Turati però ha la ragione della storia: se mai partecipa al dramma della sinistra
perché non riesce a tradurre le ragioni della storia in politica, non crede?
«No, proprio no. Il Novecento come oggi sappiamo è breve, nasce con il ’17
e finisce con il fallimento dei regimi costruiti sulla rivoluzione russa,
quando quella speranza di liberazione si traduce in una forma di
oppressione...».
Ma qualcuno lo aveva detto prima, lo aveva detto allora. A Livorno Turati
dà appuntamento al movimento operaio tutto unito in un giorno futuro: voi, dice
ai comunisti, verrete sulle nostre posizioni. Dunque?
«Siamo in quel futuro, e mi dica: dov’è il movimento operaio unito
profetizzato da Turati? Dopo la sconfitta della rivoluzione non c’è la ripresa
del riformismo, c’è semmai uno scontro drammatico tra le ragioni di civiltà
degli ultimi e le prevaricazioni del nuovo capitalismo, sostenuto dai populismi
reazionari».
Lei è stato per dieci anni segretario della Camera del lavoro a Torino. La
rivolta per il pane del ’17 e l’occupazione delle fabbriche nel ’20 erano
esperimenti rivoluzionari?
«Erano, diciamo così, annunci rivoluzionari: perché dentro le rivolte
(che oggi dopo la crisi del movimento operaio ritornano, attenzione) vanno
letti i segni del futuro. Torino ovviamente non è la Pietrogrado d’Italia, come
si dice frettolosamente. Ma è il laboratorio della rivoluzione, e Lenin lo
capisce quando la cita come esempio dell’insurrezione possibile in Occidente».
Lei crede che la rivoluzione sia stata davvero a portata di mano, in quegli
anni?
«Io penso di sì. Ci sono due frasi-chiave, per capire l’epoca. Treves, il
più autorevole leader riformista dopo Turati, dice: la borghesia non è più in
grado di governare, e la classe operaia non è ancora in grado di farlo. E
Gramsci aggiunge: o vince il proletariato e prende il potere, o una tremenda
reazione si farà strada».
Uno stallo?
«Un’opportunità. Nessuno può dire se la rivoluzione avrebbe vinto. Ma certo
non tentando si apre la strada alla reazione in cammino».
Lei sa che la lettura di Turati è opposta, lui ammonisce i comunisti
dicendo: voi armate la reazione, annunciando continuamente la rivoluzione che
intanto non preparate, con una tattica suicida e pericolosa. Cosa pensa di
questa accusa?
«Lascerei rispondere Matteotti, senza voler mettere in contraddizione
tra loro i riformisti.
Ma Matteotti dà un giudizio originale, perché capisce che il fascismo è
alimentato dalla borghesia, che è un elemento di classe, mentre Turati lo vede
come un fenomeno di minoranze facinorose».
Ma lei non è sorpreso che al congresso di Livorno il fascismo sia così
sottovalutato?
«Si contano i morti e i feriti per le azioni squadriste. Ormai non c’è più
una Camera del lavoro che sia sicura, una sede socialista che sia protetta. Ma
i socialisti considerano il fascismo come una patologia passeggera del
dopoguerra, un residuato bellico».
I Consigli di fabbrica teorizzati da Gramsci sono una sorta di soviet
italiani?
«Di più. Intanto sono espressione diretta degli operai, iscritti al
sindacato e non iscritti, come portatori di una nuova cittadinanza. Poi escono
dalla dimensione economica e sociale, sono una struttura di contropotere, la
candidatura al governo operaio dell’impresa, e addirittura la cellula
fondamentale del nuovo Stato».
A Livorno non si parla mai di libertà. Per i socialisti non dovrebbe essere
il concetto su cui misurare lo squadrismo, il leninismo e anche l’idea di
rivoluzione italiana?
«Guardi, tanti anni dopo, quando Bobbio cercava l’elemento distintivo della
sinistra non citò la libertà, ma l’uguaglianza. Se mai, io direi liberazione».
Turati però chiede al partito di ripudiare la violenza. Su questo è
d’accordo?
«Purché ci si intenda.
Evangelicamente Turati ha ragione, però Gandhi stesso non esclude il
ricorso all’autodifesa.
Voglio dire che il rifiuto di Turati è morale, la richiesta di Gramsci di
chiamare gli operai all’insurrezione è politica, perché è l’unica possibilità
di impedire al fascismo di diventare violenza di classe e poi di Stato».
Come giudica la frase di Bordiga per cui fascismo e riformismo si
equivalgono?
«Un errore clamoroso, causato dal fondamentalismo, un vizio che nasce
ovunque vi siano idee forti, tanto che ogni religione lo contiene, come ogni
ideologia. Bordiga era un fondamentalista della rivoluzione».
Quel mito non ha imprigionato la sinistra troppo a lungo?
«Sì. Ma perché? Privati della rivoluzione come progetto, i partiti
comunisti si rifugiano nella rivoluzione come mito, e quindi nel mito del Paese
dove la rivoluzione ha vinto. È questo che imprigiona i partiti, perché li
rende sudditi di quella costruzione».
Quando si è persa l’occasione per il Pci?
«A Praga, perché lì si vede che l’Urss non è riformabile. Ci voleva la rottura.
Mancata quella, non ci sarà mai più a sinistra un’elaborazione convincente del
Novecento».
Lei parla di rottura con l’Urss: allora perché era contrario al cambio di
nome del Pci?
«Perché perdevamo la comunità, una comunità straordinaria».
Continuare a chiamarsi comunisti valeva il prezzo di un’altra scissione?
«Io mi chiamo comunista, ma se lei mi chiede una parola per la sinistra di
domani, dico socialismo».
A Livorno l’ex segretario del Psi Costantino Lazzari polemizza con Lenin
che chiede il cambio del nome del partito, dicendo che è ora di gettare via la
camicia sporca del socialismo. Lei con chi sta?
«Bene, la stupirò: ma su questo, io sto con il vecchio Lazzari».
La Repubblica, 21 gennaio 1921
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