L’assalto al Campidoglio
GIUSEPPE SAVAGNONE*
I
vichinghi in Campidoglio
La stragrande maggioranza dei commenti che si sono
polarizzati in questi giorni sulle squallide gesta dei sostenitori di Trump –
con la tragicomica (ma più tragica che comica) occupazione del Campidoglio da
parte di bottegai travestiti da comparse di un brutto film sui vichinghi – si è
concentrata, oltre che sulle responsabilità del presidente in carica,
sull’imbarbarimento della società americana, di cui la presidenza Trump è stata
la conseguenza, ma anche, a sua volta, un fattore di accelerazione. Giustamente
si è sottolineata, a questo proposito, la problematicità del compito del
presidente eletto Biden, che eredita un Paese spaccato a metà, e in cui i perdenti
di oggi non si riconoscono nella sua presidenza, come quelli delle precedenti
elezioni non si sono riconosciuti in quella di Trump.
Più
grave dell’11 settembre
Sono analisi che condivido pienamente e che andavano
fatte. Esse spiegano come sia stato possibile arrivare a questo esito
traumatico, in un certo senso più grave della tragedia dell11 settembre, poiché
quest’ultima era l’effetto di un attacco dall’esterno, che compattava il popolo
americano, mentre gli eventi del 6 gennaio sono il frutto di una profonda
lacerazione interna a questo popolo e ne evidenzia la crisi.
Domande
senza risposta
Questa diagnosi, tuttavia, lascia aperti alcuni
interrogativi che non riguardano più soltanto il corso degli ultimi
avvenimenti, ma la dinamica della stessa democrazia americana. Perché resta da
spiegare il fatto che il 50% degli americani abbia potuto identificarsi con un
personaggio come Trump, non per una momentanea illusione ottica, ma anche dopo
averlo sperimentato per quattro anni come presidente.
Non
basta la motivazione economica
Le risposte basate sull’aspetto meramente economico – si
è insistito molto sull’impoverimento delle classi medie del Middle West – non
sono sufficienti. Qui siamo davanti a un’adesione popolare che va molto al di
là del puro e semplice appoggio a una linea politica favorevole ai propri
interessi e che, lo abbiamo appena detto, è stata indicata come un
“imbarbarimento”. Si tratta, dunque, non solo di un fenomeno politico, ma
innanzi tutto culturale.
Non è il
“bene” contro il “male”
Bisogna però evitare di cedere alla facile tentazione di
un manicheismo che ci porterebbe spontaneamente a contrapporre questa deriva
disastrosa, identificata con il “male”, al fronte opposto, qualificato come il
“bene”. Basta ricordare che a fronteggiare Trump nelle precedenti elezioni, è
stato un personaggio considerato emblematico del sistema finanziario e delle
sue logiche più ciniche, come Hillary Clinton. Ed è significativo che anche
questa volta l’unico candidato che rappresentava una visione alternativa al
“sistema”, Bernie Sanders, sia stato costretto al ritiro. La cultura “liberal”
statunitense è molto attenta ai diritti individuali, ma non altrettanto ai
doveri di solidarietà ed ha alimentato, nel tempo, un sentimento di profonda
frustrazione in una classe medio-bassa che, oltre ad essere sempre più
svantaggiata economicamente dalla globalizzazione, si è sentita frustrata e
umiliata dall’élite intellettuale “democratica”.
L’esempio
dell’aborto
C’è da chiedersi, a questo punto, se il rifiuto della
“civiltà” da parte di metà degli americani non sia anche un contraccolpo della
distorta interpretazione che ne dà l’altra metà. Per fare solo un esempio, fa
riflettere che i cattolici americano abbiano dovuto scegliere, già quattro anni
fa, tra un personaggio, come Trump, che esibiva rozzamente il suo disprezzo per
la morale sessuale cristiana, e uno – la Clinton – appoggiato da tutte le
potenti (anche finanziariamente) organizzazioni abortiste statunitensi. Dilemma
etico (circoscritto, ma tutt’altro che secondario) appena attenuato, certo non
risolto, nelle ultime elezioni, perché Biden, cattolico, ha fatto ampiamente
capire di volersi affidare, su questo terreno, alla sua vice, Kamala Harris,
decisamente abortista.
Trump
modello del populismo europeo
Ma forse il quadro offerto dal Paese guida del mondo
occidentale può offrire una chiave di lettura che va oltre i suoi confini.
Basta pensare che nello stile di Trump e dei suoi seguaci, in questi anni,
molti hanno potuto vedere il modello a cui si è ispirato e in cui ha trovato
alimento il fenomeno del populismo, con le sue derive sovraniste.
Non è una mera ipotesi. Sono circolati in questi giorni
le fotografie di Salvini con la mascherina su cui era stampato «Trump» e i
video con la Meloni che sottolinea la sua piena sintonia con la destra
americana. Il chiassoso inquilino della Casa Bianca è stato spesso additato
dalla destra – e non solo in Italia – come un esempio da seguire, per esempio
nella sua ostinata volontà di innalzare muri che bloccassero l’immigrazione dai
Paesi più poveri e nella sua ostilità aperta verso l’Islam.
I
limiti della “sinistra”
Per contro, anche al di fuori degli Stati Uniti la
“sinistra” è stata fortemente caratterizzata, piuttosto che una volontà di
perseguire la giustizia sociale, dalle sue vittoriose battaglie per garantire i
diritti civili, soprattutto nelle materie eticamente sensibili: divorzio,
aborto, fecondazione assistita, unioni civili, eutanasia (con la tappa
intermedia del suicidio assistito). A fronte di questa marcia trionfale dei
“progressisti”, si è però registrata il progressivo impoverimento della classe
media e l’allargamento della forbice che separa i ricchi sempre più ricchi dai
poveri sempre più poveri. Si capisce il rigetto di questo “progresso” da parte
di chi, più che al diritto di morire, aspirava a quello di vivere («Il suicidio
è roba per i ricchi», dice Totò in un suo famoso film, nei panni di un povero
poliziotto, il cui problema è di sbarcare il lunario.).
Irrazionalismo
e violenza
Anche qui non si tratta solo di schieramenti politici.
Basta guardare i social per capire che il problema è prima di tutto culturale.
Vi vediamo scorrere il fiume limaccioso di slogan che riecheggiano rabbia,
paure, risentimenti – in nome di fake
news clamorosamente infondate dal punto di vista della ragione – che
hanno come bersaglio gli scienziati e in generale gli intellettuali, accusati
di assurdi complotti volti ad ingannare la povera gente.
Non sono i vichinghi da baraccone che hanno invaso il
Campidoglio, ma anche loro sono estremamente violenti. Ne sanno qualcosa
personaggi pubblici – prevalentemente donne (penso a Laura Boldrini, a Liliana
Segre) – oggetto di una sistematica persecuzione mediatica che sfiora il
linciaggio. E se, negli Stati Uniti, questa violenza ha a che fare col razzismo
nei confronti degli afroamericani, in Italia abbiamo dovuto di nuovo sentir
risuonare pubblicamente slogan antisemiti. È la logica dei frustrati, che
sfogano il proprio infinito risentimento su chi è (o appare) più debole di loro.
Ma
l’alternativa è «Charlie Hebdo»?
Dall’altro lato le persone “civili”, informate,
intelligenti e aperte, che guardano con disprezzo a questa massa ed esercitano
la loro ragione per mettere in discussione tutte le fedi e le verità, tranne
quella della libertà di ciascuno di gestire la propria vita. Un perfetto
esempio di questo atteggiamento lo abbiamo da anni nelle vignette di «Charlie
Hebdo», esaltate dalla cultura progressista non solo francese, ma europea, come
una bella testimonianza di libertà di pensiero e di espressione, da difendere
contro i fanatici musulmani che assurdamente considerano ancora sacra la figura
di Maometto. Perché in quest’ottica nulla c’è di sacro, tranne la libertà
stessa.
Il
tramonto dell’Occidente
È in questa tremenda oscillazione tra una (illusoria)
“verità” senza ragione e una (illusoria) “ragione” senza verità che si consuma
il nostro attuale destino. Cento anni fa, in una famosa opera intitolata «Il
tramonto dell’Occidente», Oswald Spengler profetizzava l’inesorabile esaurirsi
della società occidentale. A suo avviso esso era dovuto al progressivo
affermarsi della logica della razionalità quantitativa e anonima della tecnica
a danno delle energie della vita.
“Verità”
senza ragione e “ragione” senza verità
Anche se la vita non è quella del vitalismo nietzschiano
che Spengler esalta, c’è del vero in questa diagnosi. La ragione senza verità
di cui si parlava prima è facilmente riconoscibile in quella della tecnica,
capace di approntare mezzi sempre più sofisticati per manipolare tutto, anche
l’esistenza umana (sempre più controllata), ma, in quanto esperta solo di
mezzi, non di additare i fini e i valori da cui quei mezzi dovrebbero trarre il
loro significato.
La vita senza ragione è quella che si esprime in ciechi
stati d’animo estremi, dalla paura, all’esaltazione, all’odio e che guarda con
disprezzo le convinzioni e i limiti imposti dalla razionalità. Non va cercata
solo nelle sue manifestazioni “politiche”, ma negli entusiasmi collettivi che
portano folle di persone a idolatrare questa o quella rockstar, nei gesti
balordi dei giovani che mettono a repentaglio la vita propria o quella altrui
senza ombra di motivo, nel proliferare delle sette religiose….
Partire
da noi stessi
Potremo uscire da questa perversa alternativa? La
risposta non è scritta nelle stelle. Ma è certo che essa può essere scoperta
solo a partire da una comprensione di ciò che sta accadendo. Non possiamo solo
limitarci a deprecare l’assalto al Campidoglio – anche se questo va fatto. Le
cause remote di questi eccessi sono in qualche misura dentro di noi, nella
mentalità diffusa, nei nostri costumi. È là che ragione e vita non riescono
spesso neppure «a darsi del tu», come diceva Woody Allen. Ed è da noi stessi
che probabilmente bisogna partire. Perché l’Occidente non sono solo gli Stati,
i partiti, i movimenti: l’Occidente siamo noi.
* Responsabile del sito
della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu.
Scrittore ed Editorialista.
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