di Giuseppe Savagnone
Giuste proteste di insegnanti e studenti
Si fanno sempre più frequenti le prese di posizione di professori e studenti che, con lettere o con azioni simboliche, protestano contro la chiusura delle scuole e la riduzione dell’insegnamento alla didattica a distanza (Dad). Soprattutto quelli delle superiori, i più penalizzati dal balletto di promesse e di continui rinvii, chiedono alle istituzioni – Stato e Regioni, innanzi tutto – una politica che finalmente vada al di là della retorica e si faccia carico di garantire il funzionamento in sicurezza delle strutture scolastiche.
I limiti della Dad
Anche perché la Dad rivela sempre più i propri limiti. Accolta nei primi mesi con difficoltà, ma anche con la speranza che si trattasse di una soluzione del tutto temporanea, essa risulta assai meno sopportabile quando, come sta accadendo oggi, rischia di profilarsi come la soluzione inevitabile a cui adattarsi. A questo punto anche la pazienza di insegnanti e di alunni si sta esaurendo e le condizioni dell’insegnamento si stanno rapidamente deteriorando. Sempre meno convinti i primi, sempre meno attenti e disponibili i secondi.
Lo abbiamo già detto in passato, la Dad evidenzia le ingiustizie sociali, scavando un abisso tra le possibilità di chi dispone a casa sua di spazi e strumenti tecnici adeguati a seguirla e chi invece, in ambienti sovraffollati e con mezzi tecnici insufficienti, non è in grado di studiare serenamente.
Le parole e i fatti
Non si può non concordare pienamente, perciò con la denuncia di studenti e professori nei confronti della inettitudine e della sostanziale inerzia della politica di fronte ai problemi della scuola. Si continua a parlarne, ma le scelte non sono state e continuano a non essere coerenti con i proclami. In questo settore sembra che si sia sempre colti di sorpresa, come nei giorni in cui la pandemia è scoppiata! Non solo non si è fatto quasi nulla per affrontare seriamente il problema dei trasporti – nodo decisivo, che avrebbe già dovuto essere risolto nei mesi estivi –, ma, quando si parla delle fasce che devono avere la priorità nelle vaccinazioni, non si pone in prima piano la categoria degli insegnanti, che – se si vuole davvero tornare in classe – sono certamente a rischio.
I problemi c’erano anche prima!
È vero, però, che a volte si ha l’impressione che l’obiettivo di queste giuste contestazioni si riduca a quella di ritornare alla scuola così com’era prima del Covid. In realtà l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo non ha creato, ma rivelato quella che già esisteva nel nostro sistema di istruzione e che veniva ignorata dalle istituzioni e dall’opinione pubblica.
Si diceva delle disparità sociali tra gli studenti: ma la Dad, a rigore, non fa altro che smascherarle, rivelando cosa c’è dietro l’apparente uguaglianza nel regime di normalità. Anche allora, al ritorno a casa, le differenze sociali ed economiche pesavano! E non basterà certo tornare tutti in classe in presenza per cancellarle.
Le classi ‘pollaio’
Anche per quanto riguarda le strutture scolastiche, i problemi della sicurezza nelle aule sovraffollate sono in parte legati – come sottolineano in una lettera i docenti del liceo Benedetto Croce di Palermo – al fatto che spesso «le aule delle nostre scuole sono ambienti ristretti e sovraffollati, altrove già definiti ‘pollaio’, dunque insufficienti a garantire il rientro in presenza del 75% degli alunni senza contravvenire, nel contempo, alle norme sul distanziamento sociale». Il problema non è dunque solo di superare l’emergenza sanitaria, ma di avere finalmente una scuola degna di questo nome.
Naturalmente, non si tratta di nodi risolvibili in tempi brevi. Ma la pandemia, portandoli alla luce con maggior evidenza di quanto fosse mai accaduto, costringe la nostra società a prenderne atto.
Superare una contrapposizione semplicistica
Vi è tuttavia qualcosa di più profondo che il coronavirus può dirci, nell’ambito dell’istruzione scolastica. Ed è che l’uso dei nuovi strumenti tecnici, valorizzati in questi mesi dalla Dad può servire ad ampliare l’orizzonte della didattica.
Chi, giustamente, insiste su questo punto, critica una semplicistica contrapposizione tra l’istruzione “in presenza” e quella “da remoto”. Come osservava, su «Avvenire» dello scorso 27 novembre, Pier Cesare Rivoltella, presidente della Società Italiana di Ricerca sull’Educazione mondiale, quello che stiamo vivendo può insegnarci a «governare l’inatteso». Ma per questo bisogna evitare di ridurre il problema educativo alla facile contrapposizione «in presenza/a distanza», come se l’apertura materiale delle aule garantisse automaticamente la riuscita della relazione educativa e il lavoro on line, altrettanto automaticamente, la escludesse. In realtà si tratta di integrare le due dimensioni per una più piena riuscita del lavoro scolastico.
Oltre il dualismo tra reale e virtuale
Per questa integrazione non basta, evidentemente, una semplice alternanza materiale tra i due aspetti, come si fa oggi con le alchimie in cui il 50% o il 75% degli alunni sarebbe ammesso in presenza e il 50% o il 25% seguirebbe a distanza. Il problema è molto più radicale. Il coronavirus ci costringe a ripensare la didattica tradizionale, in modo che «la presenza e il digitale, invece di essere concettualizzati come orizzonti opposti, che si escludono a vicenda», siano «pensati come dimensioni compresenti, come risorse di cui disporre per allestire dei mix ogni volta diversi, secondo le esigenze della lezione o la specificità della disciplina. È l’idea di una didattica blended, che non vuol dire solo “un po’ di presenza e un po’ di distanza”, ma dosatura di metodi, tecniche, spazi, modi di apprendere».
Un diverso modo di fare scuola
In questa logica la didattica fondata in modo esclusivo sulla lezione frontale andrebbe sostituita da una in cui, il momento insostituibile dell’ascolto (che coinvolge tutta la classe) e quello altrettanto insostituibile dello studio (individuale), vengano inseriti in un contesto più ricco e complesso, con altri momenti dedicati a lavori di gruppo che, proprio grazie alle potenzialità del digitale, si possono più facilmente organizzare, per confrontarsi creativamente su dei materiali predisposti dall’insegnante, in una reciprocità feconda che fa uscire lo studente dal ruolo di mero destinatario, purtroppo spesso passivo, della didattica, e gli chiede di diventarne attivo protagonista.
Naturalmente, continua Rivoltella, «cambia anche l’idea del docente. La didattica trasmissiva che ne fa il detentore di contenuti da trasferire, deve lasciare il posto all’idea di un docente-tutor, in grado di accompagnare gli apprendimenti, discutere i problemi, spendere la propria esperienza e le proprie competenze per attualizzare, applicare, far progredire la conoscenza».
Non dobbiamo dimenticare
Certo, ciò che di fatto accade nella Dad è tutt’altro. Ed è ovvio, perché questa valorizzazione delle potenzialità offerte dal digitale non può avvenire in tempi brevi. Essa richiede, tra l’altro, un procecsso di aggiornamento degli insegnanti che non può essere affidato solo alle iniziative di singoli. Però, ancora una volta, siamo davanti ad esigenze che esistevano già da tempo e che il coronavirus ha evidenziato.
È giusto sperare ardentemente che la scuola possa riprendere il suo percorso senza esser paralizzata dal ricatto del contagio. Ma non dobbiamo dimenticare quello che il Covid 19 ci ha fatto capire meglio. Non vogliamo tornare a ciò che c’era prima. E la memoria di quello che stiamo vivendo può essere la nostra forza per costruire una scuola – ma anche una società – un po’ migliori.
www.tuttavia.eu, 15/01/21
https://www.tuttavia.eu/2021/01/15/i-chiaroscuri-quello-che-il-covid-sta-dicendo-alla-nostra-scuola/
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