Massimo Cacciari
di ILARIA ZAFFINO
L’intervista con il filosofo dopo la chiusura del profilo di Trump
«Continuerà a parlare sui giornali, alle
televisioni, è evidente che continuerà a parlare. Mica sto piangendo sulle
sorti di Trump. È una questione di principio. Ha dell’incredibile che
un’impresa economica la cui logica è volta al profitto, come è giusto che sia,
possa decidere chi parla e chi no. Non è più neanche un sintomo. È una
manifestazione di una crisi radicale dell’idea democratica e che alcuni
democratici non lo capiscono vuol dire che siamo ormai alla frutta».
Non usa certo mezzi termini Massimo Cacciari di fronte alla clamorosa
espulsione di Donald Trump da tutti i social network, ma soprattutto da Twitter
e da Facebook. «Adesso i mezzi con cui uno fa politica, piacciano o non
piacciano, sono questi», continua Cacciari, «io ho smesso anche per questo
motivo, non esiste per me. Il mezzo fa il messaggio, il mezzo è il messaggio,
come sappiamo da qualche secolo».
Professor Cacciari, se lo immaginava che saremmo arrivati a questo?
«Che un politico, costretto per svolgere il suo mestiere a usare questi
mezzi, possa averne accesso in base a decisioni del capitalista che detiene
assoluto potere su questi mezzi stessi, a me pare inaudito.
Dovrebbe esserci un’autorità politica costituita sulla base di procedimenti
di legge, come quella per la privacy, un’autorità che sulla base di principi
della Costituzione dica Trump non può parlare. Benissimo, allora io applaudo.
Poi è evidente che Trump non dovrebbe parlare, che un politico non deve essere
messo nelle condizioni di incitare all’odio, alla violenza: ma chi lo decide?
Quello che fino al giorno prima era il suo sostenitore? Che non si capisca lo
scandalo di questa cosa vuol dire che ormai siamo proprio pronti a tutto.
Lo diceva anche Lacan: volete un padrone? Lo avrete».
Avrebbero potuto agire diversamente?
«Avrebbero dovuto. Twitter e Facebook sono dei privati, non possono
togliere la parola. Oppure stabiliscano delle regole, mi diano un loro
codice etico, come c’è nelle imprese, rendano pubblico questo codice in base al
quale concedono l’accesso alle loro reti, indichino chi e cosa ha diritto di
parola nelle loro reti e cosa no. Se non c’è una struttura politica che decide
un controllo preciso su questi strumenti di comunicazione e di informazione
decisivi ormai per le sorti delle nostre democrazie, è evidente che saranno gli
Zuckerberg di questo mondo a decidere delle nostre sorti».
Secondo lei, assisteremo a nuovi casi, ci sarà una deriva in tal senso?
«E che ne so io? Lo chieda a Facebook. O a Twitter».
Twitter è percepita come una comunità dai suoi appartenenti e Trump ne ha
violato le regole, istigando alla violenza, per questo è stato espulso.
Potrebbe essere una motivazione…
«Non c’entra la motivazione. E poi la comunità che si è costituita intorno
a questi mezzi coincide con la comunità politica, con lo spazio del lavoro
politico…».
È qui che sta dunque l’errore?
«È una tendenza storica, non è un errore. Non c’entra la storia con gli
errori: quelli si fanno in matematica, in fisica, in biologia. È inevitabile
fare politica su questi mezzi, questa è la tendenza storica, inappellabile. Ma
è inconcepibile che quei mezzi siano proprietà di un privato che decide o meno
il mio accesso al mezzo, senza alcuna possibilità di appello del pubblico,
senza alcuna forma di controllo. Perché questo avviene, il pubblico è
totalmente impotente sull’uso di quei mezzi, fuorché in Cina, ovviamente.
E in Russia. È capitato a tutti noi di chiederci: ma è possibile che qualcuno
possa aprire un profilo su Facebook a nome mio?
Provi ad andare alla polizia postale e a chiedere come si fa a chiuderlo.
Ma che vuoi chiudere?».
E allora che cosa ci resta da fare?
«Serve un’autorità politica legalmente costituita che, sulla base di
principi della costituzione di quel Paese, può decidere se Trump non ha più
accesso ai mezzi di comunicazione. Perché? Perché incita all’odio, alla
violenza, perché è nazista, perché è razzista. E sulla base di principi
costituzionalmente sanciti, o con mezzi analoghi a quelle che noi chiamiamo
costituzioni, interviene. È palese che è questa la linea democratica, ma
ormai…».
Siamo al paradosso della tolleranza di Popper: nel nome della tolleranza
non possiamo tollerare gli intolleranti?
«La tolleranza è una parola odiosa nel mio vocabolario. Non si tollera se
non ciò che ritengo inferiore. Quindi la tolleranza postula una gerarchia di
valori. Meglio essere tolleranti che intolleranti, ovviamente. Dopodiché se
pensiamo che i Trump si sconfiggano così, saluti. Magari sconfiggeremo i Trump,
più difficile sconfiggere qualche altro: forse non è proprio Trump il pericolo.
Trump si manda a casa, come si stava già facendo. Twitter o non Twitter era
stato mandato a casa. È folle che un politico si comporti come lui, non è
questo il problema. Non è che noi possiamo decidere su questioni di principio
in termini occasionali, quello ci piace allora parla, quell’altro non parla. Ma
siamo pazzi?».
La Repubblica, 11 gennaio 2021
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