Enrico Berlinguer ed Eugenio Scalfari nella sede di Repubblica nel 1984
di MAURIZIO MOLINARI
Da Gobetti a Berlinguer, dal "Mondo" all’"Espresso"
e "Repubblica" A pochi giorni dai 45 anni del nostro giornale, il
fondatore racconta passato, presente e futuro di una certa idea dell’Italia
È la "sfida dei riformisti" la chiave di lettura che Eugenio
Scalfari sceglie per rileggere la Storia d’Italia e dei giornali che ha
diretto, guardando in avanti alle «battaglie che ci aspettano per rendere
l’Europa più coesa, federale, affrontando le sfide del clima». L’inizio del
nuovo anno, assieme all’imminente 45° anniversario della fondazione
di Repubblica, offrono al fondatore di questo giornale l’opportunità
di riflettere e guardare oltre la tragedia della pandemia per rivolgersi alle
"nuove generazioni" e ribadire che «oggi come in passato lo sviluppo
dell’Italia passa attraverso scelte riformiste».
Ascoltando Scalfari, seduto nel suo salotto circondato di libri, ciò che
colpisce è la determinazione nell’indicare il filo conduttore della Storia
nazionale nella costante contrapposizione, in epoche diverse e con protagonisti
differenti, fra chi ha voluto e chi si è opposto alle «riforme di cui il nostro
Paese ha avuto bisogno». Il liberalismo di Gobetti negli anni Venti sulla
questione sociale, il liberal-socialismo di Carlo Rosselli negli anni Trenta
per sfidare i dispotismi, il liberalismo cattolico di De Gasperi nel dopoguerra
per spingere la Dc verso l’innovazione dello Stato, le idee di Ugo La Malfa e
Gaetano Salvemini sul ruolo dello Stato nell’economia come il manifesto
sull’Europa di Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli vengono letti
da Scalfari come tasselli di un percorso unico che ha il suo protagonista più
rilevante in Enrico Berlinguer, per la determinazione che dimostrò nel voler
affermare un’idea di "comunisti italiani" che prendeva le
distanze dal Cremlino per andare incontro all’Europa, alla Nato e quindi alla
Dc. Con un percorso che Aldo Moro aveva deciso di completare prima di essere
rapito dalle Br. Nel rievocare fatti e personaggi di questo mosaico riformista,
Scalfari li sovrappone ad una parabola del giornalismo italiano che parte
dal Risorgimento Liberale e dal Mondo di Mario Pannunzio
per arrivare all’ Espresso di Arrigo Benedetti e quindi alla fondazione
di Repubblica . L’intervista che segue consente di rivivere ogni
momento di questa storia, che ci consegna una chiave di lettura tanto più
importante in quanto anche oggi l’Italia si trova davanti al bivio della
responsabilità di innovare per affrontare le sfide del XXI secolo:
nell’economia come nell’ambiente, nei diritti come n el legame con l’Europa.
Quali sono i personaggi riformisti che ti
hanno segnato di più?
«Penso a Piero Gobetti, interprete di un liberalismo mai conservatore ma
proiettato verso la piena comprensione di una questione sociale che all’inizio
degli anni Venti era esplosiva e non compresa dalle classi dirigenti, tanto che
sfociò nel fascismo. Gobetti era la risposta innovativa e riformatrice a un
liberalismo chiuso in se stesso, riflesso del tramonto dello Stato liberale.
Morì in seguito alle percosse degli squadristi che avevano visto in lui una
vera minaccia. Come accadde anche a Giovanni Amendola, padre di Giorgio che
sarebbe confluito nel partito comunista proprio per sfiducia verso le democrazie
liberali, viste come incapaci di reggere la sfida fascista.
L’altro personaggio a cui penso è Carlo
Rosselli, fautore del liberalsocialismo, una visione opposta allo stalinismo
che dominava gli anni Trenta. Anche Rosselli pagò con la vita l’essere di tanti
anni più avanti di altri esponenti della sinistra non solo italiana. Ma qui
voglio ricordare una figura chiave della mia biografia intellettuale. È Enrico
Berlinguer, con il quale strinsi una vera amicizia. Come l’intervista
lunghissima, fantastica, che mi concesse nel 1981 e la conversazione avuta a
fine aprile 1984 ancora oggi testimoniano. Morì pochi giorni dopo avermi
incontrato. Berlinguer fu il grande riformatore della tradizione comunista».
In che cosa si esprimeva il riformismo di Berlinguer?
«Era un leader di prim’ordine perché aveva
saputo mettere sotto accusa il legame fra il Pci e Mosca. Voleva una forma di
comunismo, ma forse si dovrebbe dire di socialismo, italiano. All’epoca, tra
gli anni Settanta e Ottanta, erano ancora i sovietici a comandare e a
condizionare. Ma lui era determinato, voleva rompere quel legame di chiara
sudditanza. Questo avrebbe permesso al Pci di essere pienamente una forza
riformatrice in un paese complesso come l’Italia».
Che tipo di rapporto avevi con Berlinguer?
«Avevano un rapporto molto stretto. Ci
vedevamo spesso a cena a casa sua. Oppure presso un comune amico, Antonio Talò,
dove lui si sentiva tranquillo.
Quando ebbe il malore, il pomeriggio del 7
giugno 1984 a Padova, cadendo a terra al termine di un comizio che non aveva
voluto interrompere, lo soccorsero, mentre la piazza era attonita. Ma era
troppo tardi e sopraggiunse la morte. Ai funerali che si fecero a Roma portai
l’omaggio mio e del giornale alle Botteghe Oscure, dove mi accolsero alcuni
leader del partito che, sapevo benissimo, avevano attaccato il nuovo corso di
Berlinguer. Erano davvero in pochi a sostenere la svolta verso un comunismo
italiano, distinto e distaccato da quello sovietico. Sotto questo aspetto la
lezione politica Berlinguer è stata assai diversa, in maniera decisiva, da
quella di Palmiro Togliatti».
Perché contrapponi Togliatti e Berlinguer, che cosa ti colpì nelle
differenze che li distinguevano?
«Togliatti aveva sempre tenuto un piede di
qua e uno di là, era legato a Mosca, era andato in Spagna durante la guerra
civile come rappresentante dell’Internazionale di osservanza sovietica. Poi era
tornato in Italia, aveva operato la “svolta di Salerno” e sostenuto il governo
Badoglio, in seguito era entrato nel governo De Gasperi come ministro della
Giustizia. Da segretario generale del Pci Togliatti si adoperava per non
spezzare il legame con i comunisti sovietici, ma al tempo stesso si sforzava di
costruire una via nuova, europea: quella che diventerà “la via italiana al
socialismo”. Lo andai a trovare quando nel luglio del 1948 venne ferito
nell’attentato.
Togliatti mi disse che voleva accettare in
Parlamento il matrimonio religioso e non solo civile: non era contrario
all’essere comunista e a conciliare questo con un sentimento religioso. Era il
suo approccio di fondo. Gli risposi “non sono né comunista né religioso ma
ti ammiro”».
Torniamo a Berlinguer: con lui il Pci fece cadere il tabù sull’Europa e poi
sulla Nato: si trattò decisioni significative per il partito comunista più
grande dell’Occidente. Che impatto ebbero sulla politica italiana?
«Diedero una dimensione più vasta e solida
al riformismo di cui egli era il principale interprete. Repubblica sosteneva
questa linea di Berlinguer ma ci attaccavano. Aspramente. Continuammo su quella
linea, consapevoli che sostenere Berlinguer voleva dire aiutare le riforme.
Tuttavia la vulnerabilità di Berlinguer consisteva nel non aver
molto seguito dentro il suo partito. La scelta per il comunismo italiano
non era poi così popolare. Egli procedette con piccoli passi successivi.
All’inizio andò a Mosca a una riunione del Pcus dove fu contestato, non gli
piaceva l’idea di sedersi in una cornice mondiale perfino accanto ai cinesi
maoisti.
Poi si recò ad incontrare i leader
comunisti in Francia e Spagna - era la fase dell’eurocomunismo - ma l’esito non
lo convinse più di tanto. “Non stanno in piedi da soli” mi disse. Eravamo amici
e mi raccontava tutto. Dunque scelse la formula dei “comunisti italiani” e in
quanto tali, mi disse personalmente, “siamo pronti a fare l’accordo con la
Dc”».
Ben prima di conoscere Berlinguer, hai lavorato al “Mondo”. Che tipo di
riformismo era quello del giornale di Mario Pannunzio?
«Pannunzio era un liberale progressista
con una forte vocazione riformatrice. Ritrovavo in lui qualcosa di Gobetti, la
stessa vocazione alla libertà, l’identico rifiuto della “torre d’avorio” in cui
certi intellettuali tendevano a rinchiudersi. Ma c’era in lui anche la spinta
sociale di un Carlo Rosselli. In Pannunzio, liberale autentico, prendeva forma
in modo pragmatico, mai ideologico, l’idea rosselliana, anche se lui non si
sarebbe mai definito socialista.
Nei fatti però lo era per la sua visione
dell’economia, dei rapporti sociali e della relazione tra Stato democratico ed
economia. Il suo percorso partiva dal giornale Risorgimento
liberale ma la testata per la quale è ricordato è il settimanale Il
Mondo. La cui influenza sul dibattito politico del dopoguerra è stata immensa.
Fu uno straordinario strumento per influenzare la politica in senso
riformatore, per rinnovare il paese dalle fondamenta. Ma Pannunzio non si
accontentava di questo e infatti il suo cammino lo portò a fondare il primo
partito radicale, alla ricerca della “terza via” tra la chiesa democristiana e
la chiesa comunista. Era una scelta genuina, personale, politica. Lo ricordo
seduto assieme a me sui gradini di piazza di Spagna, intento a progettare il
futuro. Con lui, votati alla terza via, c’erano Ernesto Rossi e Ferruccio
Parri, l’uomo che era stato guida intransigente della Resistenza e primo
presidente del Consiglio della nuova Italia. Allora Parri era il segretario di
una piccola formazione liberalsocialista dopo essere uscito dal Partito
d’azione.
Le radici, come ho detto, erano quelle di
Rosselli, trasferite nell’Italia chiusa degli anni Cinquanta. Avevo molto in
comune con Pannunzio. Come me veniva dal Partito liberale e anzi alla fine
della guerra era una delle figure più influenti di quella formazione. Ma decise
che doveva stare a sinistra, come avrebbe fatto anche Gobetti se fosse vissuto.
Era liberale ma di sinistra. E io fui rapito da questa idea di
socialismo-liberale».
In cosa si esprimeva concretamente questo progetto?
«Vorrei ricordare i “convegni del Mondo”, voluti
e organizzati da Pannunzio. In essi si esprimeva un forte sostegno al programma
innovatore delle forze indirizzate verso il centrosinistra. Se i liberali erano
rimasti sulla sponda conservatrice, i repubblicani di Ugo La Malfa
rappresentavano l’idea più moderna del liberalismo calato nei problemi di
sviluppo di una società industriale. I convegni ebbero un ruolo cruciale nel
sostenere la nazionalizzazione dell’industria elettrica ed altri temi
riformatori. Dominava il pensiero di Ernesto Rossi e le sue idee sul ruolo
dello Stato nell’economia. Lo Stato era protagonista del sistema produttivo,
con il compito di riformarlo, innovarlo, senza tentazioni assistenziali e
clientelari. E poi c’era l’Europa.
Ernesto Rossi era stato con Eugenio
Colorni e Altiero Spinelli a Ventotene, assieme scrissero il “Manifesto” che si
articolava proprio sulla visione di un’Europa integrata e sul ruolo statale
nell’economia, una volta liberati dalla dittatura fascista».
E poi c’è il riformismo cattolico. Come consideravate Alcide De Gasperi?
«De Gasperi era un riformista, un liberale
cattolico. La sua Dc credeva nelle riforme dello Stato, basti pensare alla
riforma agraria, al libero scambio, al ritorno dell’Italia nell’occidente delle
democrazie avanzate. Quando De Gasperi muore, nel ’54, c’è Pannunzio nel
giornalismo e Ugo La Malfa nella politica: due laici che di fatto ne difendono
il lascito. All’inizio La Malfa era azionista, uno dei capi del Partito
d’azione, sempre attento a quello che si muoveva verso sinistra. Eravamo molto
legati con Ugo. Lui un giorno mi disse: “Vado nel Pri perché qui c’è gente di
sinistra ma anche di destra come Carandini”.
Voleva essere un ponte e lo fu. “In quanto
repubblicano sottolineava - potrò tenere i contatti con voi e con te”. Anche
per questo quando morì fui io a pronunciare il discorso alle esequie a Piazza
Colonna. Era un personaggio di grande intelligenza e preveggenza».
Quale era il tuo legame con Ugo La Malfa?
«La Malfa era per una presenza ben calibrata
dello Stato nell’economia. Ovviamente accanto allo sviluppo del settore
privato. Era per una radicale riforma dello Stato e della pubblica
amministrazione, in grado di liberarla delle incrostazioni del passato e
di una burocrazia persistente e frenatrice. Riteneva che la giovane Repubblica
avesse bisogno di una struttura efficiente. Erano gli stessi obiettivi del
gruppo del Mondo, tra i cui collaboratori più prestigiosi c’era
Gaetano Salvemini, il grande meridionalista. Eravamo a favore della Cassa del
Mezzogiorno, una delle maggiori conquiste di quegli anni. Essere di sinistra
significava battersi per uno Stato capace di aiutare l’economia, renderla più
vicina ai cittadini, più equa».
Dunque, chi era l’avversario politico?
«La Dc che aveva dimenticato
De Gasperi e che nella sostanza si opponeva oramai a qualsiasi
cambiamento. Nel 1963 il nostro Espresso, che avevo ereditato da
Arrigo Benedetti, faceva grandi inchieste proprio sulle riforme, sfidando il
potere democristiano.
La Dc era l’avversario direi naturale, in
quanto partito che non voleva le riforme che avrebbero intaccato il suo potere.
E poi c’era questa tendenza confessionale,
aveva i preti sempre fra i piedi.... Le forze conservatrici erano numerose e
agguerrite. Noi le smascherammo con lo scoop dell’Espresso sulla storia del
“Piano Solo” del generale De Lorenzo. Ci fu un periodo in cui in Italia si
temette il colpo di Stato degli apparati più retrivi».
Il passo seguente fu la fondazione di “Repubblica”…
«Dopo il settimanale decisi con Arrigo Benedetti
di fare un quotidiano. Andammo a chiedere i soldi al proprietario della Nestlé
e ad altri. Repubblica diventa erede dell’Espresso e del riformismo
ritrovato nel sostegno a Berlinguer, al nuovo Pci che si era staccato dai
sovietici e accettava la sfida del governo in una società democratica
dell’occidente.
Eravamo anti-Dc perché Aldo Moro, la
figura allora più rappresentativa del partito cattolico, oscillava. All’inizio
era molto conservatore, poi si spostò verso il centrosinistra, ne
divenne anzi uno dei maggiori interpreti, e io iniziai ad avere un
rapporto con lui. Per altro quando nacque Repubblica - noi ovviamente
non potevamo saperlo - stavamo per entrare negli anni di piombo e la parabola
politica di Moro si avviava alla sua tragica conclusione».
Che cosa ricordi del rapimento in Via Fani?
«Poco prima del giorno in cui fu rapito,
Moro mi aveva invitato nel suo studio spiegandomi il programma del nuovo
governo che stava per nascere con il voto anche della sinistra: “Fra 15 giorni
vado in Parlamento e propongo un’alleanza con il Pci” mi disse.
“Per due legislature” aggiunse.
Moro al momento non voleva il Pci al
governo ma nella maggioranza parlamentare. Chiamava i comunisti gli “alleati
ufficiali”, in prospettiva gli avrebbe dato anche dei ministeri. “Sono
d’accordo con il Pci” mi assicurò. Poi Moro mi chiese: “Hai preso appunti?
Quanto ti ho detto non lo sa nessuno, tu
mi fai un’intervista ed esci con il tuo giornale la mattina in cui parlo alla
Camera dei Deputati. Esci alle 7 del mattino, io parlo alle 11”. Quella
mattina Repubblica esce come d’accordo, ma lui viene rapito dal
commando delle Brigate Rosse in Via Fani. E comincia il sequestro che si
concluderà con il suo corpo depositato nel bagagliaio di un’auto in Via
Caetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. La ricerca durò
52 giorni, fu vana e poi arrivò il cadavere. Lì l’Italia repubblicana subì un
trauma terribile, per riprendersi poi all’inizio degli anni Ottanta con una
sinistra operaista e rivoluzionaria che non ci piaceva. Anche il Pci ne uscì
indebolito. Le Br riuscirono a far fallire il progetto riformista che era nato
con Berlinguer e che Moro voleva portare a compimento».
Insomma, il riformismo come chiave di lettura dell’Italia, da Carlo
Rosselli a Enrico Berlinguer, ed anche del giornalismo dal “Risorgimento
liberale” al “Mondo” fino all’“Espresso” e “Repubblica”. Due storie
parallele...
«Sono i due processi che hanno portato
a Repubblica, giornale della sinistra democratica italiana,
riformista ed europea, che Ezio Mauro ha continuato dopo i miei venti anni di
direzione. Un giornale che fu anche casa di personaggi come Guido Carli,
governatore della Banca d’Italia, molto colto ma gelido».
Dove è oggi la sfida più avanzata del riformismo?
«Rinnovare il nostro Paese ora non basta
più. Serve la Confederazione europea di cui parlava Altiero Spinelli. Tanto più
che leader come il russo Vladimir Putin vogliono imporsi su scala globale,
anche a spese dell’Europa. E propongono addirittura il superamento in chiave
autoritaria della democrazia liberale, la considerano obsoleta».
Come si può arrivare a un’Europa più integrata?
«Anche e soprattutto attraverso la
battaglia per il clima. Bisogna aiutare i Paesi europei che sono bagnati dal
mare o dai grandi fiumi perché sono quelli che rischiano di più a causa dei
cambiamenti climatici. Sono i più deboli. C’è qui un ruolo per l’Europa: dare
vita ad una grande confederazione partendo dalle coste più minacciate, dal
Baltico fino al Mediterraneo».
La
Repubblica, 2 gennaio 2021
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