di FILIPPO CECCARELLI
È morto a 96 anni il politico sopravvissuto alla storia del suo partito Fu chiamato a Roma da Togliatti. Diventò confidente di Berlinguer, favorì l’ascesa di Sandro Pertini al Quirinale e non aderì mai al Pd
Può sembrare un paradosso ricordare Emanuele Macaluso come un grande Sopravvissuto proprio in occasione della sua morte, a 96 anni, dopo una lunghissima vita intensa e accompagnata dalla più alta e generale considerazione. Ma il fatto che avesse vissuto ben oltre la durata del Pci e se ne sia andato il giorno prima del centenario finisce per collocare la sua figura quasi al di là del tempo; come se fosse la sua stessa vita a fissare la misura del secolo, dalle lotte contro lo sfruttamento dei "carusi" nelle zolfatare alla vuota superficialità del presente, rispetto al quale spesso scuoteva la testa, ma senza mai smettere di curiosare, interpretare, capire e a volte anche divertirsi.
Sull’archetipo del Sopravvissuto ha scritto pagine indimenticabili e
perturbanti Elias Canetti in Massa e potere, quanto di più lontano
dalla cultura marxista e dalle applicazioni togliattiane su cui Macaluso si era
formato e che mai volle abbandonare. «In battaglia altri sono caduti attorno a
lui». Eppure sta esattamente nell’essere entrato in rapporto con tanti morti, e
tenerli in vario modo nel cuore, che sembra aver concesso a Macaluso una
sapienza superiore, fosse l’atteggiamento dei grillini sulle tentazioni del
potere o il ricordo di Massimo Bordin, l’evoluzione della mafia o
l’impoverimento della classe politica.
Acuto e lucidissimo per la verità lo era sempre stato. Lo si capiva dagli
occhietti vispi e lampeggianti disponibilità all’ascolto, ma pure all’ironia.
Era un uomo di breve statura e dalla voce appena un po’ stridula, i baffi
distintivi, gli abiti così decorosi e comuni da sfiorare, al giorno d’oggi,
l’eleganza. Nulla gli era più distante dallo snobismo, dal narcisismo e
dall’assenza di interiorità.
Appena apriva bocca se ne avvertiva l’origine, quel senso di antica e
profonda consapevolezza che rende i siciliani il sale della terra. Il fulcro
della sua passione è stata fino all’ultimo ciò che nella sua parlata suonava
come la "poleteca", la politica, entità quanto mai sfuggente e
fraintesa, ma che nei suoi giudizi e addirittura nel suo composto gesticolare
risultava, prima che mestiere, vocazione, ideale, tecnica, autodisciplina,
quindi stile, arte e anche soddisfazione. Un gradino sopra la "poleteca"
Macaluso poneva la cultura politica, il che implicava che si dovesse leggere e
studiare per andare al cuore del problema e trovare una soluzione, ma
comprendendo e rispettando, possibilmente, il punto di vista
dell’avversario e la sua forza. Anche per questo era scettico sull’odierno
primato della comunicazione, da cui derivava ogni sorta di male, fino al
nichilismo.
Nel Pci ebbe presto una strepitosa carriera. Poco più che trentenne, reduce
dalle battaglie sindacali per l’occupazione delle terre e contro la mafia, nel
1956 entrò in Comitato centrale e da segretario regionale gestì
l’"operazione Milazzo", il primo serio tentativo di spaccare la Dc.
Nel 1962 Togliatti lo vuole a Roma, sia in direzione che in Segreteria; eletto
alla Camera nel 1963, l’anno seguente tiene la relazione alla V Conferenza
organizzativa; Longo lo conferma al vertice, dove pure è responsabile della
Stampa e Propaganda e dell’Organizzazione.
Sono anni in cui l’individualismo non è considerato una virtù; mentre
nell’Italia bacchettona una tempestosa vita privata, che coincide con un grande
fascino personale, lo porta a pagare a livello giudiziario il rapporto con una
donna sposata e su un piano esistenziale la tragedia di un’altra che si toglie
la vita – come poi ha scelto di ricordare in tempi recenti.
Divenne popolare, se così si può dire, a metà degli anni Ottanta, quando da
direttore dell’ Unità sigla "em.ma" efficaci e a volte integralisti
corsivi – l’"abuso di Macaluso" denunciano i craxiani – e gestisce
con una certa tolleranza lo sfogatoio autodissacrante della satira domestica.
Eppure già prima di allora è un personaggio di grande rilievo. A lui Berlinguer
confida i sospetti su un attentato in Bulgaria; sempre Macaluso denuncia
l’esistenza di "santuari" durante il caso Moro; ed è, con Mancini e
Andreotti, l’inventore dell’elezione di Pertini al Quirinale, contro Craxi.
Ma fino a un certo punto, perché l’isolamento del Pci è peggio di Bettino.
In nome del riformismo, sia pure caricaturizzato in "migliorismo",
contesta Berlinguer e alla bandiera della questione morale, insieme con
Napolitano oppone una prospettiva socialdemocratica. Diffida di Occhetto e del
nuovo partito post-comunista: Da Cosa non nasce cosa è il titolo di
un suo libro (con Paolo Franchi). Tutto quello che accade dopo lo vede fuori,
lontano, ma al tempo stesso vicinissimo, come nessun altro capace di
individuare magagne presenti e limiti futuri. Né aderisce al Pd. Quando
spiegava il perché era più che convincente. Il Grande Sopravvissuto sa quello
che gli altri non vedono e vede quello che gli altri non sanno.
La Repubblica, 20 gennaio 2021
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