I leader storici Antonio Gramsci insieme a Palmiro Togliatti in un disegno di Renato Guttuso |
di EZIO MAURO
Massimo D’Alema ripercorre i cento anni dalla fondazione di Livorno tra
ideali e contraddizioni "L’ambiguità era praticare il gradualismo
nascondendolo col linguaggio della rivoluzione" E sui rapporti con l’Urss:
"La rottura fu tardiva, Occhetto ha un merito storico"
Massimo D’Alema, lei è stato il primo presidente del Consiglio venuto dal
Pci, nella percezione comune viene considerato come l’ultimo comunista, il
figlio di quel partito. Voltandosi indietro, come giudica la
scissione di Livorno del 1921 che portò alla nascita del Pci?
«Io penso che il gruppo dirigente del Pci si sia formato proprio nella
riflessione autocritica sul congresso di Livorno. Tutto il pensiero di Gramsci
è un’analisi autocritica sugli anni Venti: anzi, si potrebbe dire che Gramsci ha
scritto un’opera monumentale sulle ragioni della sconfitta della sinistra in
Italia. Quindi il ’21 è celebrato come l’evento della nascita del Pci ma in
realtà risulta una sconfitta, una frattura del movimento operaio, proprio
quando stava sorgendo il fascismo».
C’è voluto un secolo per arrivare a questa
lettura?
«No. Ogni tradizione viene sempre creata e per il Pci il creatore è stato
Togliatti, che ha utilizzato Gramsci: questa tradizione ha concepito il ’21
certo come l’evento mitico della nascita del partito, ma politicamente come un
errore, e ha fatto risalire la vera nascita del comunismo italiano al congresso
di Lione, non a quello di Livorno».
Livorno però resta il simbolo della
scissione: perché nella storia della sinistra italiana riformismo e massimalismo
non possono convivere?
«In realtà faticano a convivere nella vicenda europea. In origine
l’obiettivo della trasformazione socialista era comune, ma c’era un mondo che
concepiva l’avvento del socialismo come frutto di una rottura violenta, rivoluzionaria,
e un mondo che lo pensava come risultato di un processo graduale. Poi questa
divisione è diventata insanabile con la guerra fredda. Perché poi la vera
frattura, diciamolo, è stata tra la scelta occidentale e il rapporto con
l’Urss».
C’è una parola che a Livorno Turati oppone
alla rivoluzione, rifiutando la violenza e la dittatura del proletariato: è il
gradualismo. Il socialismo, spiega, si realizza costruendo una Casa del popolo
oggi, una Camera del lavoro domani, conquistando un comune dopodomani. Non
aveva ragione?
«Sì, ma mi lasci dire una cosa paradossale: in sostanza, senza mai
teorizzarla, questa è stata la politica del Pci, la sua costituzione
materiale».
Lei sta dicendo che il Pci in realtà ha
praticato il riformismo senza mai dirlo?
«Aggiunga pure qualcosa di più: nascondendolo, con un linguaggio che lo
rendesse compatibile con un orizzonte rivoluzionario. Ad esempio inventandosi
le riforme di struttura che non si è mai capito bene cosa fossero: erano
riforme e basta, ma non si poteva dire. Questo è stato il convivere nel Pci
dell’ideologia rivoluzionaria, e della pratica riformista. Ambiguità, dicevamo:
ma bisogna aggiungere che se il Pci fosse vissuto solo di Mosca e rivoluzione
non sarebbe mai arrivato al 35 per cento dei voti».
Tuttavia in quegli anni la rivoluzione
sembra a portata di mano in Italia, come credono i dirigenti russi. Secondo lei
nei moti per il pane del ’17 e nell’occupazione delle fabbriche del ’20
c’era un progetto rivoluzionario?
«Non c’erano le condizioni per un’insorgenza rivoluzionaria. Come diceva
Lenin la rivolta sociale di per sé non produce la rivoluzione. In più l’Italia
era un Paese dove una rottura di quel tipo avrebbe portato a uno scontro con
una borghesia che era attrezzata, come poi dimostrò. Insomma, la via sovietica
non era praticabile in Occidente, e questo è Gramsci».
Insomma, nella divisione anche fisica del
teatro Goldoni a Livorno lei si sarebbe seduto nei palchi a sinistra, dove
stava Gramsci?
«Di tutte queste figure storiche Gramsci è quello che ha lasciato il segno
più profondo nella teoria politica mondiale. Guardiamo l’occupazione delle
fabbriche, una lotta che diventa autogoverno degli stabilimenti e della
produzione: quanta modernità esprime rispetto alla jacquerie, alla
rivolta plebea? Questa è una costante del nostro mondo. Penso a Emanuele
Macaluso, purtroppo scomparso oggi: scoprì il Pci per ragioni sociali, vista la
povertà della sua famiglia; poi le lotte, il partito e il sindacato furono la
sua vera scuola».
C’è un’altra teoria politica in campo,
allora, il riformismo turatiano. Come giudica la lettera di Turati ad Anna
Kuliscioff, in cui dice che è un delitto politico dividersi tra una rivoluzione
che non si fa e una riforma che non si tenta?
«È sacrosanto. Ma lei sa che né Gramsci né Turati furono i veri
protagonisti a Livorno. Furono altri: dal versante comunista l’intransigenza
bordighista e dall’altra i massimalisti di Serrati. Le due figure più
grandi restano sullo sfondo».
Quanto ha pesato l’ossessione di Lenin e
del Komintern di espellere i riformisti?
«I sovietici vogliono espellere i riformisti perché puntano a portare sulle
loro posizioni il corpo centrale del partito. Non fanno una guerra di correnti,
ma di conquista».
Infatti Zinoviev, presidente della III
Internazionale, fino alla vigilia di Livorno è convinto che il Congresso
accetterà la linea del Komintern. Si sbagliava: da questo lei deduce che la
scissione è una scelta politica autonoma nata dentro il Psi?
«Io dico che la scissione nasce anche da un profondo disprezzo verso il
"socialismo parolaio" che veniva soprattutto dal gruppo ordinovista
torinese».
Ma non è colpito dai due interventi a
Livorno di Christo Kabakciev, l’inviato del Komintern, che porta il diktat di
Lenin e praticamente vota al congresso, schierandosi per la mozione comunista e
annullando ogni autonomia del partito italiano?
«Ma nella visione di quel tempo i partiti erano semplici sezioni di un
movimento internazionale. In questo c’era anche una reazione culturale al
nazionalismo deteriore, quindi alla tragedia della guerra mondiale. Nella
storia del Komintern abbiamo anche avuto casi terribili, di partiti sciolti
dall’Internazionale. No, non c’era molta considerazione dell’autonomia.
Prevalevano le ragioni della rivoluzione russa».
Cos’era il mito della Russia?
«Era l’irrompere nella storia europea di una novità epocale, con il mondo
degli oppressi che si faceva Stato, poneva fine a un impero, a un’autocrazia, a
una dinastia, a un’oppressione. Era cioè veramente il segno che cominciava una
nuova storia. Naturalmente tutto questo venne visto dalla borghesia europea
come una minaccia estrema, a cui si doveva reagire anche attraverso forme di
rottura della democrazia, di totalitarismo. Per paradosso si potrebbe dire che
in questo senso la rivoluzione russa è diventata anche il mito degli
anticomunisti».
Come mai il primo intervento alla Camera
sulla rivoluzione russa è di Turati?
«Perché tutti, compresi i riformisti, percepirono la portata di questa
frattura. Forse solo chi aveva un rapporto più stretto con la realtà russa,
come Anna Kuliscioff, coltivava una precisa diffidenza verso i bolscevichi
leninisti».
Anche perché sperava che il governo del
principe L’vov e di Kerenskij potesse guidare la rivoluzione di febbraio verso
un esito democratico, prima dell’Ottobre...
«Sì, chi guardava da vicino vedeva nella rivoluzione componenti che
furono spazzate via dal colpo di mano bolscevico. Ma chi era lontano vedeva i
soviet, un programma di pace, terra ai contadini, potere agli operai. Si
capisce il fascino dell’evento».
Si capisce meno perché quel mito è durato
fino a tardi, troppo tardi, nonostante due smentite clamorose come le invasioni
di Praga e Budapest. Come lo spiega?
«Chi come me appartiene alla generazione del ’68 non ha conosciuto il mito
dell’Urss.
Io ero a Praga quell’anno per portare la mia solidarietà alla Primavera, e
quando arrivarono i carrarmati ero in mezzo alla gente che manifestava per
strada. Devo essere sincero: se il Pci non avesse condannato l’invasione, la
mia generazione non sarebbe entrata nel partito. Insomma, il
mito sovietico ha funzionato in modo diverso per generazioni diverse. Noi
abbiamo avuto altri miti, come l’eurocomunismo, che si sono rivelati fallaci,
ma non sono stati sanguinari».
Anche il sogno di un comunismo democratico
era fallace, come dimostra il golpe sovietico contro la perestrojka di
Gorbaciov, non crede?
«Non c’è dubbio che quella illusione ha ritardato il nostro cambiamento. Abbiamo
pensato che la perestrojka potesse essere una riforma democratica del
comunismo, e invece rappresentava – con tutta la generosità politica e morale
di Gorbaciov – la fine di quel mondo. Un’illusione che Praga doveva già aver
spazzato via».
Non era quello il momento per dare un
giudizio definitivo sul comunismo sovietico?
«Sì, sì. Era il momento di dire che si era esaurita la spinta propulsiva
del ’17. Quella dell’allontanamento dall’Urss è stata una storia troppo lunga,
segnata da molti ritardi, molte sofferenze, molti timori che la rottura potesse
portare a una lacerazione del partito, perché il mito sovietico era un elemento
coesivo, c’è poco da fare. Questa è la verità: nella storia del Pci hanno
convissuto diverse generazioni, diverse culture, diversi modi anche di essere
comunista. Convivevano pagando un prezzo, perché quella coabitazione ha
comportato naturalmente un’ambiguità».
Che è durata troppo a lungo: il tempo in
politica ha il suo peso. Lei faceva parte del gruppo dirigente del Pci che
decise di cambiare il nome al partito, ma solo dopo la caduta del muro di
Berlino. Avverte questo limite nella svolta?
«Sì, e tuttavia fu un momento drammatico, per centinaia di migliaia di
persone, a dimostrazione che il Pci non era un accampamento cosacco in Italia,
ma una parte rilevante della vita del Paese. Vede com’è complicata questa
nostra storia? Dal punto di vista storico è giusto dire che fu tardi, e questo
ritardo ha avuto per la sinistra un costo altissimo, perché ha contribuito a
bloccare il sistema; ma dal punto di vista umano, sentimentale, le radici del
Pci nella storia nazionale erano così profonde che la fine è stata vissuta come
un dramma anche da chi considerava la scelta giusta. Per fortuna Occhetto ruppe
gli indugi, questo resta il suo merito storico indiscutibile».
Dopo un secolo di contrasti, qual è
secondo lei la parola che oggi definisce la sinistra?
«L’idea socialista, creata dal lavoro, rimane l’espressione più forte. So
che non contiene il tema della salvezza del pianeta, della liberazione
femminile, ma è la parola della storia.
Poi tocca ormai ai più giovani trovare le parole nuove per una storia
nuova. Con un sentimento antico che è un modo di essere, una dimensione dello
spirito umano che costruisce il futuro nell’uguaglianza e nella solidarietà».
Tra le carte di Livorno ho trovato questa
frase: "Il socialismo è ciò che il suo tempo lo fa". Può servire per
un nuovo inizio?
«Non c’è dubbio, è perfetta. Purché si sappia che il tempo non sconfigge la
distinzione fondamentale tra destra e sinistra, come ci ha spiegato Bobbio. E
non cancella il problema delle disuguaglianze. Pensi che un Papa come Giovanni
Paolo II dopo la fine del Pci mi disse: "Io ho sempre lottato contro i
comunisti, ma adesso mi chiedo: ora chi difenderà i poveri"?».
La Repubblica, 20 gennaio 2021
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