Paolo Rossi e Roberto Baggio |
DAL NOSTRO INVIATO GIAMPAOLO VISETTI
Parla l'ex numero 10 azzurro, che con Paolo Rossi ha condiviso una grande amicizia oltre che l'amore per il Vicenza: "Festeggiando nell'82 decisi che avrei provato a diventare come lui"
VICENZA - "Avevo 11 anni, e la domenica mio papà Florindo mi caricava sulla canna della sua bici. Venivamo a Vicenza per vedere giocare un ragazzo sconosciuto che si chiamava Paolo Rossi. In inverno, dopo 12 km di pedalate, arrivavo allo stadio Menti congelato. Però guardando quell'attaccante gracile e coraggioso, già più forte di tre interventi alle ginocchia, ho cominciato a sognare anch'io e non ho ancora smesso. Se sono diventato calciatore lo devo a lui: non aveva un fisico perfetto, come me, però mi ha suggerito il valore prevalente del cuore e del cervello". Roberto Baggio esce dal Duomo di Vicenza e, al termine del funerale, va ad accarezzare la bara. Pochi istanti, quasi in imbarazzo, nascosto tra i campioni che con loro hanno condiviso la maglia della Nazionale. "Quando penso a chi mi ha insegnato a rialzarmi dai burroni della vita penso a Paolo. E anche lui mi ha confidato di aver pensato spesso a me. Il successo e le vittorie sono solo attimi di tregua dentro una resistenza umana cementata dalla capacità di non cedere al dolore".
Quando ha incontrato Rossi per la prima volta?
"Era l'autunno '76. Nemmeno noi tifosi del Lanerossi sapevamo chi fosse.
Si diceva solo che in squadra fosse arrivata una giovane promessa frenata dagli
infortuni. Certi particolari, legati alle difficoltà, mi hanno sempre
incuriosito. Guardavo come si muoveva, aggrappato alla rete della porta: i suoi
occhi seri e concentrati, quasi nascosti in fondo al volto pallido, me lo
facevano sentire vicino".
Quale aspetto la colpì di più?
"Un dettaglio, non decisivo per uno sportivo: il sorriso. Segnava un gol e
la sua faccia si trasformava. Guardava la folla in festa e rideva, come
liberato dal peso di un macigno. Si capiva che era felice per noi, non fiero
per la sua impresa. Era un attimo, ma vedevi che lui era un uomo buono: poi
tornava l'altro Rossi attento, con lo sguardo incollato sul pallone".
Quando ha capito che poteva diventare un campione come lui?
"Non c'è un momento. Si impara ogni giorno a diventare forti: purtroppo
mai a come rimanerlo. Ma noi, pur con oltre dieci anni di differenza, siamo
stati di un'altra generazione. Penso che la mia sia l'ultima dei bambini
autodidatti, che passavano infanzia e giovinezza a prendere a calci un pallone
per la strada, solo per giocare e divertirsi".
Vuole dire che il calcio di oggi non permetterebbe di eccellere a giocatori
speciali come voi?
"Dico che oggi i ragazzi, fin dall'inizio, hanno a disposizione molti più
dati per allenarsi e molti più schemi per trovare il loro posto sul campo. Crescono
programmati. Noi improvvisavamo, non sapevamo niente degli altri: forse il
problema dei piedi è aver perso la libertà di giocare senza pensare".
Rossi&Baggio, due Palloni d'oro uniti da Vicenza: come lo spiega?
"Resta un mistero unico al mondo. Ne abbiamo riso spesso con Paolo:
abbiamo concluso che il segreto è la familiarità, che qui viene prima della
popolarità. Abbiamo potuto restare semplici, conservare gli amici, avere una
famiglia, sentirci sempre a casa, tenere la giusta dimensione. Il Pallone d'oro
si vince se non si smette il dialetto".
A quale ricordo è più legato?
"Luglio 1982. Avevo 15 anni e dopo la vittoria, con Pablito capocannoniere
ed eroe di quel trionfo, sono venuto con gli amici a fare festa a Vicenza, in
Corso Palladio. Penso che quella notte ho deciso che avrei provato a diventare
come lui. Non mi seduceva la gloria, piuttosto l'amore speciale che la gente
provava per lui".
Cosa aveva di speciale?
"Ricordava l'amore materno. Commuoveva. Credo che questo sia dipeso dalla
sua sostanza, che è stata sempre l'umanità".
Cosa rappresenta la sua morte?
"La fine di quel nostro calcio. Il congedo fisico dall'amico che più mi ha
ispirato. Non parlo dei trionfi pubblici, penso agli angoli bui della vita
autentica. È l'umanità a fare la differenza".
Quando vi siete incontrati per l'ultima volta?
"Dopo tanto tempo siamo stati insieme in Cina. Ci sono stati lo spazio e
il silenzio per parlare di noi, di quanto le nostre esperienze siano state
simili, delle cicatrici che il successo incide sugli esseri umani. Parlammo
anche della voglia di fare qualcosa insieme per un futuro più sostenibile,
soprattutto nel calcio. Posso dire che lui, usando il termine sostenibilità, si
riferiva a una cultura".
Le ha mai chiesto del suo rigore a Usa 1994?
"No, Paolo è stato un uomo molto intelligente. Sapeva che io, dopo 26
anni, quando vado a letto tante volte penso ancora a quel rigore. Fin da
bambino sognavo di giocare una finale Italia-Brasile. La sorte me l'ha offerta,
concedendomi però solo l'impercettibile confine tra la felicità e la
disperazione. Paolo è stato un fratello: non c'era bisogno di parole per
spiegare le ragioni di un evento atroce e decisivo".
Cosa gli avrebbe detto incontrandolo ancora?
"Ciao Paolo, e soprattutto grazie, come ogni volta".
Cosa resta oggi?
"Il suo sorriso, la forza della sua famiglia, la gioia che ha regalato a
tutti. E una lezione: chiamare l'imminenza della morte una fase complicata
della vita".
La Repubblica, 12 DICEMBRE
2020
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