di PAOLA ZANUTTINI
Mentre riesce il suo saggio su James Dean, il grande critico confronta quella generazione con l'attuale "instupidita da internet e università". Intervista (con qualche speranza)
Nella sua lunga carriera di saggista e critico militante, Goffredo Fofi ha pubblicato una settantina di libri, anzi: certo di più, visto che la sua opera omnia sembra renitente alla catalogazione metodica. Oggi ne ripubblica uno che risale agli anni 80, con le dovute revisioni e aggiunte: Il secolo dei giovani e il mito di James Dean (La nave di Teseo). La revisione fondamentale è questa: se il Novecento, oltre che breve, è stato giovane, nel senso che ha consentito alle nuove generazioni, reduci da due guerre mondiali e dalla Grande Depressione, di tentare di prendere la parola e finalmente ottenerla, nel XXI secolo non è proprio aria. L'aggiunta fondamentale è l'entrata in campo, e in pagina, della giovanissima ecologista svedese Greta (Thunberg) segnalata senza cognome, come un'altra mitica Greta (Garbo), sua connazionale: "Che tante Greta nascano e lottino, cercando e trovando nuove alleanze!" auspica Fofi.
Dean è morto sulla sua Porsche nel 1955, a 24 anni. Con tre film
all'attivo: La valle dell'Eden di Elia Kazan, Gioventù
bruciata di Nicholas Ray e Il gigante di George Stevens.
Lei racconta che per Kazan dirigerlo era come dirigere la "fedele
Lassie", cioè un cane. Niente a che vedere con Brando. E allora perché è
diventato un mito?
"Il giudizio di Kazan è la verifica della grande intuizione di Hitchcock:
'Gli attori sono bestiame'. Una crudeltà, però in quel tipo di cinema era anche
vero. Ma Kazan e Ray avevano capito Dean: con Stanislavski, l'Actors Studio, la
psicoanalisi, erano riusciti a trasformare un bamboccetto nevrotico in una
figura di riferimento per gli adolescenti americani cresciuti nel Dopoguerra e
a disagio nel primo benessere. Berkeley, il manifesto di Port Huron, il
processo ai Chicago Seven sono in qualche modo collegati a James Dean. Il
titolo originale del film di Ray era Rebel Without a Cause: non
c'era ancora una causa per ribellarsi, ma l'idea la dava già".
In questo secolo, oltre Greta, non vede davvero altre gioventù ribelli?
"Le vedo, altrimenti meglio spararsi, ma in generale i giovani non contano
un accidente, reagiscono agli stimoli di internet come i cani di Pavlov".
Invece nel Novecento...
"Per un periodo hanno avuto un'importanza enorme. È stata ricerca di
autonomia esplosa per minoranze infime dopo la Prima guerra mondiale, perché in
fondo le rivoluzioni le fanno i giovani - e quei giovani venivano dalla guerra
- e le avanguardie. Era una rivoluzione contro la borghesia che aveva mandato
al macello milioni di ragazzi. André Breton va ai funerali di Anatole France -
Nobel onorato da tutto il Paese, che probabilmente nel privato legge e apprezza
anche lui - e distribuisce un volantino intitolato Un cadavere. Lo
fa perché France era l'emblema di quella cultura borghese che aveva consegnato
allo sterminio la sua generazione. Anche la rivoluzione fascista, più borghese
e piccolo borghese, e quella gramsciana nascono da rivolte giovanili. E questo
va avanti in maniera evidente con la Grande Crisi in America, che ha generato
Woody Guthrie e, per discendenza, Bob Dylan, che dio ce lo conservi. Grande
Crisi vuol dire anche Hemingway, che ha fatto la Prima guerra mondiale e
raccontato Caporetto come nessuno in Italia, ha girato il mondo, vissuto la
Depressione e inventato il personaggio del loser, il perdente, che
al cinema si chiama Humphrey Bogart, Robert Mitchum, John Garfield".
Come dire che tout se tient: storia, società, letteratura, cinema.
"Infatti. Poi c'è la Seconda guerra mondiale e i reduci Hemingway,
Mitchum, Garfield raccontano il confronto con la società che cambia e porta il
benessere. Così si arriva a Dean, un anticipo del '68. Stimo molto Edgar Morin
- dio ci conservi anche lui - perché ha capito che quelle immagini erano una
produzione collettiva: se un film ha successo è perché il pubblico lo
decreta".
Qui però non si parla di Vietnam, che in materia di movimenti giovanili si è
dato un bel da fare.
"Il movimento studentesco americano nasce dal benessere come, in seguito,
il nostro '68. Certo, il Vietnam risveglia le coscienze. C'è anche il problema
dei neri, ma quello è un periodo straordinario nella storia dell'umanità. E gli
storici continuano a trascurarlo. Ci sono le rivoluzioni in India, Cina e
America Latina, la decolonizzazione in Africa, le socialdemocrazie europee,
perfino la destalinizzazione in Russia. Una stagione esplosiva e straordinaria:
in Italia è durata dal 1945 al '78, alla morte di Moro, un trentennio di grandi
riforme operate da una minoranza che si è trovata per strani motivi al centro
della Storia. E negli Usa l'onda lunga è arrivata fino a Obama".
Un'epoca che il cinema ha raccontato straordinariamente bene.
"C'è un film del 1977 di Chris Marker, Le fond de l'air est rouge,
che copre il periodo dal 1945 al 1977, diviso in due parti: Le mani
fragili e Le mani tagliate. Queste rivoluzioni, incluso il
'68, avevano le mani fragili, mani spietatamente tagliate dal capitale. La
storia delle rivoluzioni è finita in quegli anni e ora ci troviamo in una
società dove ha vinto il dominio del denaro".
Io intendevo anche un cinema più godibile.
"Quello appunto in cui non contava solo il denaro. La preoccupazione
centrale di Arthur Penn non era il dollaro, come per Spielberg, che è bravo, ha
talento, mi piace nonostante tutto, ma si venderebbe la madre per gli
incassi".
Lei trova le ragioni del tramonto di ogni ideale collettivo, protesta o spinta
propulsiva nel saggio La cultura del narcisismo di Christopher
Lasch (1979). Le diffonda, prego.
"C'è stata una sconfitta generale e un ripiegamento nella cultura del
narcisismo, appunto. Giovani, femministe, gay, scrittori, musicisti, tutti a
dire io, io, io. Lasch ha scritto anche un altro saggio, Rifugio in un mondo
senza cuore in cui li avvisa: se buttate a mare anche la famiglia non vi resta
più niente. Ha ragione, non c'è altro che solitudine e macchinette, ma farsi le
seghe al computer non è come una bella scopata. Con la persona amata, per di
più. E il narcisismo nuoce anche alla creatività e alla cultura: rende tutti
uguali e scemi. Quella era un società viva, mobile, questa è in stasi
prefinale. E senza conflitti coi padri, che si son fatti furbi, castrano alla
nascita i figli di cui vogliono essere coetanei".
Greta Thunberg salvaci tu?
"Anche Roma è piena di piccole e buone iniziative di quartiere, i miei
amici giovani sono operatori sociali molto bravi, ma cosa gli manca? Gli
intellettuali. Ne parlavo con De Rita, che viene dal Movimento di
collaborazione civica, dove sono stato anch'io dieci anni dopo: ai corsi
residenziali nel castello della principessa Caetani, venivano a parlarci
Ernesto Rossi, Capitini, Chiaromonte, Calogero, Angela Zucconi: c'era un legame
straordinario tra generazioni intellettuali. Oggi c'è solo l'università, il
principale nemico di ogni progresso che, insieme a internet, produce stupidi
segaioli incapaci di agire. Un paradosso: ogni anno le mafie uccidono, salvo
stragi, non più di venti persone, l'università ammazza un milione di cervelli.
Li decervella, come diceva l'Ubu roi di Jarry".
Rimedi?
"Quando trovo giovani bravi, il primo limite che cerco di smontare è il
pensare di farcela da soli. Avrei anche quattro comandamenti: resistere,
studiare, fare rete (non nel senso di internet!), rompere le scatole".
Tornando a Dean: per diventare miti aiuta essere un po' stupidi?
"Aiuta morire giovani. Poi gli artisti consapevoli del loro ruolo sono
pochi. Ero amico di Fellini e Pasolini: non si amavano, ma si rispettavano e
temevano, come Bernini e Borromini".
Neanche lei era tanto tenero con loro.
"Però li amavo e se ne accorgevano. Poi Fellini mi chiese perché da
giovane ce l'avevo con lui. Gli risposi: perché io volevo la rivoluzione e tu
no. E lui: 'La rivoluzione io? Ma sei scemo?'".
E lei quando ha smesso di volere la rivoluzione?
"Abbastanza presto, standoci dentro ho visto che finiva tutto malamente. E
attecchivano i prodromi del narcisismo".
Sul Venerdì del 20 novembre 2020
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