FIRENZE - "A Dante Alighieri, l'Italia M DCCC LXV". La statua di Dante eretta nel 1865 in suo onore sulla scalinata di Santa Croce (Fotografia di Elena Piccini, s.d.) |
by NICOLA MIRENZI
Ma possiamo ancora considerarlo un Padre della Patria? Un'inchiesta che smentisce la tesi dilagante. Marco Santagata: "Questa è una vecchia idea anti storica”
L’ansia di celebrare i settecento anni della morte di Dante Alighieri è così forte che nessuno ha la pazienza, noi inclusi, di aspettare che si avvicini almeno la ricorrenza per festeggiarla (sarebbe a metà settembre del 2021). Libri, concerti, letture: la festa è già iniziata. E la ragione della fretta l’ha spiegata bene il ministro della cultura Dario Franceschini, presentando il calendario degli eventi a Firenze. “L’Italia come nazione è un paese giovane – ha detto – e ha bisogno continuamente di ritrovare la sua unità, di riconoscersi intorno a valori comuni, soprattutto in un momento come questo”. L’incertezza è pericolosa, in particolare durante una pandemia, così ecco pronto Dante a rinsaldare l’identità italiana, testimoniando che non solo esistiamo davvero come nazione, ma che siamo un popolo niente male, a giudicare dal gran pezzo di antenato che abbiamo avuto.
Secondo
il ministro Franceschini, “Dante è uno dei simboli dell’unità nazionale”; e non
c’è ragione di dubitare che l’intero arco costituzionale sarebbe lieto di
sottoscrivere il racconto del Dante Padre della Patria. Del resto – mi aveva
detto Marco Santagata – questa è una “vecchia idea anti storica”. Aveva riso,
subito dopo averlo detto, Santagata, uno dei maggiori italianisti e studiosi di
Dante, sapendo di contraddire la piega che hanno preso le cerimonie, e di
sconfessare parecchie ore di lezione impartite dalla scuola pubblica. Era un
mese fa, circa quindici giorni prima che morisse. Avevo letto il suo “romanzo”
sulla vita di Dante, che oggi è un Oscar Mondadori, e l’avevo chiamato. Mi
aveva risposto con il buonumore di chi sa troppe cose per credere alle
mitologie.
PUBBLICITÀ
“Sono
centinaia gli intellettuali che hanno raccontato Dante come l’eroe nazionale.
Ma è un ritratto falso. Per Dante, l’Italia non esisteva. Nel suo tempo, che
era il Medio Evo, esistevano tante piccole formazioni politiche che si facevano
la guerra tra loro. L’idea dello stato nazione è nata secoli dopo, e non poteva
rientrare nell’orizzonte dantesco. Dante aveva in mente l’Impero:
un’istituzione sovranazionale che doveva garantire la pace, la prosperità e la
sicurezza di tutti i cristiani. Ma che vuole, nella storia succede
continuamente che si prendano i fatti culturali e li si rileggano alla luce
delle esigenze del momento”.
Per più
di quattro secoli dopo la morte, Dante non è stato il Poeta eterno che conosciamo
oggi, anzi aveva addosso tutti gli acciacchi della mortalità. Dire che non lo
leggeva nessuno sarebbe esagerato, ma lo scrittore che dominava la scena era
Francesco Petrarca: il simbolo dell’Italia, l’italiano più conosciuto e
riconosciuto. E il come e il perché l’uno abbia poi surclassato l’altro, oltre
che una zuffa letteraria, ha a che fare con il modo in cui è stato costruito il
mito della nazione italiana, il totem da cui sgorga ancora la conflittualità
endemica di noi che l’Italia la abitiamo anche oggi.
Racconta
Amedeo Quondam nel suo libro Petrarca, l’italiano dimenticato che
Dante viene riscoperto durante il romanticismo, ma che il suo nome si accende
veramente di gloria nel Risorgimento. Appena l’Italia comincia a essere
immaginata come nazione, fantasticata come stato, desiderata come Terra
Promessa, i patrioti ricciuffano Dante e lo issano al proprio fianco, come il
più illustre dei sognatori della patria. Verrebbe subito da pensare che il
motivo stia nella lingua, dal momento che Dante è stato uno dei più importanti
creatori della lingua italiana (e, dice Cioran, “non si abita un Paese, si
abita una lingua”). Però – ha insistito Santagata – “l’obiettivo di una lingua
di cultura comune Dante lo perseguiva pur sempre all’ombra dell’Impero, non
certo in vista dell’Unità nazionale”.
Nemmeno
Vittorio Sermonti lasciò mai credere il contrario, sebbene con la lingua di
Dante abbia deliziato a lungo gli italiani, e senza ricorrere al trucco dell’icona
pop. Nel Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, venne chiamato a tenere tre
giorni di lezioni nell’aula del Palazzo dei gruppi parlamentari. Premise che
non aveva alcuna voglia di parlar bene dell’Italia, e che ne avrebbe parlato
“semplicemente con amore”. Poi, raccontò che fu Virgilio a inventare la parola
Italia, Dante a promuovere “le parlate sgangherate degli italiani alla nobile
esattezza del latino” e Verdi a rendere l’italiano finalmente popolare. Si
guardò bene dal dire che Dante aveva creato l’Italia. Concesse qualcosa sulla
lingua, ma specificando che si trattava di un azzardo: “Vogliamo dire che Dante
ha fondato le basi teoriche dell’italiano? E diciamolo”.
Il
motivo per cui i patrioti scelsero Dante non è dunque nell’italiano. La ragione
bisogna cercarla fuori. Più precisamente: fuori dall’Italia.
A
Londra, era il giugno del 1840 quando Giuseppe Mazzini entrò nel negozio di un
libraio antiquario di nome William Pickering e, frugando tra gli scaffali,
trovò il commento alla Divina Commedia che aveva scritto
Ugo Foscolo negli ultimi anni della sua vita. Stava lì da tredici anni e
nessuno lo aveva pubblicato. Nemmeno Pickering, che pure lo aveva commissionato
a Foscolo per quattrocento sterline. Mazzini era l’esule italiano più famoso
del mondo, era andato in galera, aveva scelto l’esilio, aveva Fondato la
Giovane Italia e la Giovane Europa, era caduto nel dubbio che l’Italia non si
sarebbe mai fatta, ed era risalito dallo sconforto convinto che comunque era la
sua missione, e doveva mettercela tutta per portarla a termine. Quando aprì il
manoscritto, lesse che Foscolo aveva sempre desiderato “illustrare” Dante “per
l’Italia presente e futura” e che la Divina Commedia “è libro
da italiani”.
Si
entusiasmò. In fondo, era quello che pensava anche lui. Quando aveva poco più
di vent’anni, Mazzini aveva scritto Dell’amor patrio di Dante, il
suo primo saggio. Sosteneva che Dante era stato il primo, solitario
cantore dell’unità nazionale, un antesignano della religione laica della
Patria. In tutta l’opera di Dante, Mazzini rintracciava lo schieramento “con
l’elemento della nazione futura”, anche quando Dante parlava di Impero, poiché
– diceva – a Dante non importava se l’Imperatore fosse stato italiano o
germanico, quel che gli importava era che l’Impero fosse tolto alla Germania e
restituito all’Italia.
“Sono
forzature per noi evidenti”, mi dice Giovanni Belardelli, storico del pensiero
politico e autore per il Mulino di un’importante biografia di Mazzini. “Mazzini
provava una venerazione sconfinata per Dante, e ciò lo spingeva a individuare
nelle opere del Poeta alcune delle proprie idee”. Per Mazzini, la
letteratura era un’arma implicitamente politica, e quella di Dante serviva in
particolar modo alla causa. Mazzini completò il commento di Foscolo alla Divina
Commedia, che si era interrotto all’Inferno, con l’idea che la diffusione
dell’opera potesse riscattare il popolo italiano (parole sue)
“dall’infiacchimento che tre secoli d’inezie e di servilità hanno generato e
mantengono”. Era un’idea condivisa dalla gran parte dell’élite risorgimentali:
Dante come fustigatore del carattere degli italiani. E dice Belardelli:
“Attraverso il culto di Dante si affermava così la figura dell’intellettuale
come moralista, aspro critico dei difetti dei propri connazionali”.
Era
fondamentale ri-fare gli italiani. Secondo la gran parte dei patrioti, lunghi
anni di dominio straniero avevano compromesso il popolo, rendendolo vile e
corrotto. E l’emblema di questa italianità deteriore divenne Petrarca, che
aveva la colpa di essere stato un poeta cosmopolita, a sua agio presso le corti
europee. Mentre Dante, no: era rimasto intatto. Ai loro occhi, era
l’incarnazione dell’italiano intransigente, l’uomo che aveva scelto con sdegno
l’esilio pur di non piegarsi al nuovo potere di Firenze. L’esilio stabiliva una
connessione esistenziale tra loro e Dante. Come Dante, anche molti patrioti
avevano preferito pagarla cara lontano da casa anziché piegarsi allo straniero.
Come Dante, testimoniavano con la vita l’attaccamento alle virtù civiche e
all’ideale nazionale. Come Dante, potevano perciò anche permettersi di ridire
sugli altri italiani. “Spesso gli esuli – mi racconta Berardelli – vivevano in
condizioni miserabili all’estero, ma sapere di essere fedeli all’esempio
dantesco era di grande conforto morale”.
Anche
sulla moneta italiana da 2 euro è rimasta impressa questa immagine. Dante è
ritratto in una posa arcigna, il volto spigoloso, forse anche un po’
imbronciato, sembra che da un momento all’altro possa erompere in
un’invettiva.
“Dante
– ha scritto Giuseppe Prezzolini – resta il più grande degli Antitaliani, come
potrebbero chiamarsi i giudici severi e i critici implacabili degli Italiani.
La forza dominante, la probità e la fede incomparabili, l’unità di poesia,
pensiero ed azione, fanno di lui l’eccezione più impressionante e l’antitesi
più grande del carattere degli italiani”.
Prezzolini
scrive queste parole in un libro dedicato alla civiltà italiana, dal
titolo L’Italia finisce, e già nella prima riga della prefazione
italiana appare, ancora una volta, la parola “esule”. Il libro esce in inglese
nel 1948, a New York, poi viene tradotto in francese e spagnolo e solo dieci
anni dopo, nel 1958, viene tradotto anche in italiano. Scrive Prezzolini:
“Questo libro è la confessione d’un esule volontario dall’Italia”. La
lontananza dalla Patria è ancora una volta il modo migliore per guardare gli
italiani come sono davvero, senza nascondersene i limiti.
“Dante
si può definire Antitaliano nel senso che la sua forte dimensione morale stride
con il racconto che si fa degli italiani come popolo dalla mentalità
familistica, attento al particulare”, dice Giulio Ferroni,
professore emerito de La Sapienza di Roma, autore de L’Italia di Dante.
“L’anti italianità di Dante è un invito a un’altra Italia, l’ipotesi un’Italia
diversa”.
Infatti,
i grandi riformatori degli italiani tornano spesso a Dante. Nella prima lettera
dal carcere che scrisse, nell’autunno del 1926, Antonio Gramsci chiese alla
“gentilissima signora” Clara, sua padrona di casa a Roma, “una Divina
Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato”.
Durante la prigionia, si dedicò a una lettura politica del X canto
dell’Inferno, il canto degli eretici, di cui rimane uno “schema” nelle Lettere
dal carcere e un saggio in frammenti nei Quaderni. Anche
Piero Gobetti immaginò con Dante il risorgimento dell’altra Italia,
considerandolo l’annunciatore dello “Stato” (non della nazione), inteso come
“vita superiore dei cittadini organizzati”. Dante fu un compagno anche di tutti
gli intellettuali liberali torinesi. E, più in generale, mi dice Massimo
Cacciari, “di coloro che guardano periodicamente alla miseria della situazione
politica e culturale italiana e si richiamano a Dante per denunciarne lo
scandalo”.
E se
quando è il caso di scuotere l’Italia e gli italiani Dante appare sempre
figurarsi se poteva mancare nei progetti di chi gli italiani voleva rifarli
daccapo, come il fascismo. Per rendergli onore, nel sesto centenario della
morte, il 12 settembre del 1921, Italo Balbo marciò con tremila camicie nere su
Ravenna. Gli squadristi prima omaggiarono la tomba di Dante, poi devastarono la
Camera del lavoro, i circoli socialisti, la sede della Federazioni delle
cooperative, appiccando in piazza un rogo di carte, documenti, giornali,
quadri, panche e libri, raccolti dai locali devastati. “Mussolini – mi racconta
Emilio Gentile, il maggiore storico del fascismo – era considerato
l’incarnazione del Veltro”. Il Veltro, apprendo, è un personaggio profetizzato
nel primo canto dell’Inferno, poi richiamato in più occasioni nella Divina
Commedia. “ Un riformatore – si legge nel commento di Anna Maria Chiavacci
Leonardi – che opera sul piano politico”, per rinnovare “la missione
provvidenziale di Roma”.
Dante
aveva sicuramente in mente l’Imperatore. Ma Emilio Gentile mi chiede un attimo
di pazienza. Va a prendere nella sua libreria il volume che raccoglie le
lettere di Balbino Giuliano, filosofo e ministro dell’educazione del regime dal
1929 al 1932. Poi ne legge una. Giuliano scrive che, per quanto lo riguardava,
Mussolini “era l’uomo predestinato a ricongiungere in Roma, secondo l’idea di
Dante, due simboli sacri: la Croce e l’Aquila, e a fugare non dall’Italia
soltanto, ma dalla faccia della Terra il disordine morale e civile”.
Sottolinea, Gentile, che si tratta di lettere private, non di scritti di
propaganda. Al termine della chiacchierata, mi manda su whatsapp anche la foto
della copertina di un volume di Decio De Minicis, del dicembre del 1929, dal
titolo Il Veltro, in cui il profilo scultoreo di Mussolini è
affiancato dall’ombra gemella di Dante. È solo uno dei libri nella quale si
argomenta che Dante avesse annunciato l’avvento di Mussolini. Un altro è Dante Alighieri e Benito Mussolinidi
Domenico Venturini.
“Il
fascismo – spiega Gentile – era un esperimento di rigenerazione del
carattere degli italiani. Il mito di Dante, creato dai risorgimentali per
ricomporre le matrici della nazione italiana, è stato usato dal fascismo per
fissare il modello di ciò che gli italiani nuovi dovevano essere, finalmente
mondati dai propri vizi e forgiati da un alto senso morale”.
A
Dante, Benito Mussolini voleva dedicare un monumento su via dei fori Imperiali,
a Roma. Qui, di fronte alla Basilica di Massenzio, a poche centinaia di metri
dal Colosseo, dove oggi c’è uno sportello d’informazione turistiche e una donna
sta cercando di comunicare all’impiegato la sua nazionalità. “I’m french”,
ripete. E di là dal vetro si sente rispondere: “Fre… cosa?”.
Il mausoleo
doveva chiamarsi Danteum e fu progettato da Mario Sironi e Giuseppe Terragni,
due architetti (soprattutto il secondo) fondamentali del razionalismo italiano.
Dell’opera rimangono i disegni, un modello e due relazioni descrittive. “Non
Museo, non Palazzo, non Teatro, ma Tempio”: ecco cosa doveva essere il Danteum
per Terragni. Seguendo il progetto, la visita iniziava perdendosi dentro una
selva di cento colonne, simboleggianti l’ingresso nell’Inferno; proseguiva
attraverso il Purgatorio, dal quale cominciava a intravedersi il cielo;
culminava nel Paradiso, rappresentato architettonicamente da trentatré colonne
di vetro. Il fascismo però perse la guerra, e del Danteum non si fece più
nulla.
Dante,
invece, è rimasto. Ma possiamo ancora considerarlo un Padre della Patria? “La
sua concezione dell’Impero – risponde Cacciari – potrebbe essere utile
piuttosto per declinare nel senso più alto l’idea dell’unità Europea. Il
modello sovranazionale dantesco, infatti, non ha nulla di autoritario, né di
centralistico. L’Aquila che appare nel Paradiso è formata da numerose luci,
ciascuna con la propria specificità. Dante non si nascondeva le immense
difficoltà di una sintesi tra gli idiomi, le culture e le tradizioni della
famiglia europea, ma l’obiettivo era comporle”.
Cacciari
esclude che una discussione del genere possa esserci in questo settimo
centenario: “Ma lo vede il clima etico e politico in cui siamo?”. Si torna
cosìal carattere degli italiani. Un discorso scivoloso. Poiché, dalle altezze
della poesia, rischia spesso di precipitare nei discorsi da bar. Italiani,
infatti, sono sempre gli altri; sono sempre gli altri che si portano dietro i
vizi di una storia lunga secoli, e devono essere prima rimbrottati, poi
cambiati. Illuminante è stato parlare di questo con Alessandro Barbero, storico
del medioevo e star della divulgazione in rete, che a Dante ha dedicato una
biografia da poco uscita per Laterza.
“In esilio, Dante trova una fortissima
spinta etica e moralizzatrice. Si scaglia contro la politica italiana corrotta,
addita i lussi e i vizi di quello che era uno dei Paesi più ricchi del tempo.
Eppure Dante, nella politica italiana corrotta, c’è stato dentro
spudoratamente. Lo confessa proprio all’inizio della Divina Commedia,
dichiarando di aver smarrito la “diritta via” proprio a metà della sua vita.
Cosa intende dire precisamente? La mia ipotesi è che voglia riconoscere di
essere stato tal quale gli italiani che adesso condanna, ossia di aver seguito
lo spirito di fazione e di aver brigato in qualsiasi modo pur di far vincere la
propria parte. Ecco com’è precipitato nella “selva oscura”. All’improvviso,
però, si risveglia e percorre la via che lo porta fuori di lì, il cammino con
cui inizia la seconda parte della sua esistenza. Ed è questo itinerario ciò di cui
vuole parlarci, la strada che vuole indicare anche a tutti gli altri. Ecco il
Dante che si può definire Antitaliano: il Dante che si ritrova”. Il Dante che,
prima di voler cambiare gli italiani, ha cambiato innanzitutto se stesso.
www.huffingtonpost.it, 07/12/2020
https://www.huffingtonpost.it/entry/dante-lantitaliano_it_5fca1da4c5b63a1534510ce3?utm_hp_ref=it-cultura&ncid=newsltithpmgnews
Nessun commento:
Posta un commento