Congresso di Livorno |
Lo strappo coi socialisti un secolo fa ha segnato per sempre il Pci e poi la sinistra. Una "dannazione" dice Ezio Mauro. Che in un libro racconta un pezzo della nostra storia. E qui anche un po' della sua
Il grande romanzo della sinistra italiana comincia da un peccato originale che Ezio Mauro nel suo ultimo libro ha chiamato "dannazione". È un sortilegio, una coazione a dividersi, che cent'anni fa - il 21 gennaio del 1921 - trovò la sua culla simbolica nel Congresso di Livorno, con la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista d'Italia. La sua storia è consegnata a un'ampia bibliografia, ma nessuno l'ha raccontata con lo sguardo di un grande giornalista che torna nei luoghi, i passi che dividono il Teatro Goldoni dal vecchio Teatro San Marco, cerca nei palchi a sinistra, nascosto nell'ombra, il busto di Gramsci e in platea, a destra, la barba lunga di Turati. "È una lezione che arriva da Nabokov", dice Mauro dal suo studio romano, alle spalle una parete di libri dedicata alla Russia. "Sono i dettagli a trasformare un materiale inerte in qualcosa che merita di essere letto: li definiva "note a piè di pagina nel volume della vita" che rappresentano "una forma suprema di consapevolezza"".
Alle giornate congressuali, ricostruite sotto una luce inedita grazie a
un'aggiornata ricerca archivistica, fa da controcanto la tumultuosa storia del
socialismo italiano, all'ombra del pericolo fascista che avanza. Una vicenda
drammatica che, nell'eterno conflitto tra radicalità e riformismo, avrebbe
segnato l'intero Novecento. E dove le ragioni della storia faticano a trovare
quelle della politica. A questa epopea della sinistra non è estraneo
l'autore, direttore prima della Stampa e poi per vent'anni
di Repubblica, di cui è oggi editorialista. "Posso dire di
aver sempre cercato la sinistra. L'ho cercata soprattutto attraverso il mio
lavoro".
Partiamo dalle convulse giornate di
Livorno. Il congresso rappresentò una novità nella politica italiana.
"Per la prima volta comparve una cinepresa a un congresso di partito. E,
davanti al teatro Goldoni, i leader venivano immortalati dal fotografo
ufficiale con i lampi di magnesio. Fu un grande spettacolo nazionale, ma
soprattutto fu una pagina inedita della storia politica: non era mai accaduto
che una rivoluzione venisse discussa in pubblico, sotto gli occhi di
migliaia di carabinieri, soldati e guardie regie che presidiavano il
campo".
Nel libro riveli che c'erano molti agenti segreti in azione. È un aspetto che non
è mai stato raccontato.
"Ci fu un intenso lavorìo tra prefettura, questura e ministero degli
Interni per intercettare le conversazioni telefoniche dei congressisti accorsi
a Livorno. Dovettero dirottare il controllo sulla centrale di Pisa perché nella
sede telefonica di Livorno la maggior parte dei lavoratori era iscritta
"ai partiti estremi". Questo fa capire come il potere considerasse i
socialisti degli eversori. E d'altra parte, indipendentemente dalle correnti -
riformista, massimalista e comunista - , non c'era nessuno che non si
considerasse rivoluzionario".
La rivoluzione russa era arrivata con una forza irresistibile.
"Era stata una formidabile spallata ai tempi della storia, come se
improvvisamente si fosse accorciato l'orizzonte socialista e la rivoluzione
fosse a portata di mano. Anche Filippo Turati non aveva saputo resistere al
fascino rivoluzionario di Kerenskij, come dimostrano le lettere scambiate tra
il 1917 e il '18 con la compagna Anna Kuliscioff. Poi entrambi avrebbero preso
le distanze dalla fase bolscevica".
Fu Lenin a chiedere l'espulsione della corrente riformista. La scissione nasce
da questo.
"In larga maggioranza il partito votò contro l'ultimatum di Mosca e la
frazione comunista abbandonò il Teatro Goldoni per andare a fondare il nuovo
partito nel vicino Teatro San Marco. La cosa sorprendente è che il congresso
sembra ipnotizzato da se stesso, incapace di capire ciò che accade
nel Paese: lo squadrismo fascista è già molto attivo ed è singolare
che rimbalzi pochissimo dentro il teatro. Nel profluvio di parole che i
congressisti si scagliano addosso, il concetto di libertà non appare quasi mai.
In pochi avvertono il pericolo fascista che avanza".
Quasi tutti pensavano che fosse un fuoco di paglia destinato a spegnersi. Solo
due anni dopo, in una lettera a Togliatti, Gramsci definirà la scissione di
Livorno il "trionfo della reazione".
"Lo dice anche Giacinto Menotti Serrati in una lettera inedita a Jacques
Mesnil che ho trovato negli archivi della Fondazione Feltrinelli: "Ci divoreremo
tra di noi e la borghesia finirà per avere qualche poco di pace". Non
sappiamo se la storia avrebbe cambiato il suo corso, ma certo le divisioni
all'interno del movimento operaio favorirono l'ascesa del
fascismo. Nel 1919 Mussolini aveva avuto un risultato elettorale
deludente".
A Livorno viene sancito un destino permanente della sinistra italiana che è la
condanna a dividersi. Un sortilegio che si ripeterà nel tempo.
"In realtà la dannazione si era presentata fin dal principio: già nel 1892
a Genova, nel congresso che dà origine al Partito dei lavoratori, Turati e
Prampolini avevano invitato gli anarchici ad andarsene. E ancora nel 1912 c'era
stata un'altra scissione con la cacciata dei gradualisti tra cui Bissolati e
Bonomi".
Il conflitto tra riformismo e radicalità è una costante della sinistra.
Vittorio Foa tendeva a rappresentarla con la sua consueta ironia: tra
riformisti e rivoluzionari non c'è alcuna differenza perché i riformisti non
fanno le riforme e i rivoluzionari non fanno la rivoluzione.
"Foa è stato uno dei miei punti di riferimento. Ma ora mi viene in mente
la battuta di un dirigente locale: "Il socialismo è quello che il suo
tempo lo fa". È la storia che di volta in volta privilegia la componente
riformista o quella "intransigente". Se uno reinterpreta quegli
accadimenti con il senno di poi - ma è troppo facile! - le ragioni della storia
sono dalla parte di Turati, del suo gradualismo riformista. Il problema è che
il leader socialista non riesce a tradurle in una pratica politica. E queste
ragioni non gli vengono riconosciute nel momento in cui vive".
È evidente la tua simpatia per Turati.
"Sì. Ma sono affascinato anche da una figura per molti aspetti agli
antipodi che è Antonio Gramsci. Entrambi non sono solo dei militanti, ma provano
a mettere in campo una teoria politica. Quella gramsciana dei consigli di
fabbrica incontrò molte diffidenze nel partito e nel sindacato. Fu messo sotto
accusa per il fallimento della stagione rivoluzionaria con l'occupazione delle
fabbriche a Torino. Ed è anche per queste critiche che Gramsci non parlò al
congresso. Nonostante il suo nome sia stato invocato più volte dalla platea,
preferì non sporgersi dal palco".
A proposito della dannazione, tu scrivi che è come se la dinamica dei corpi
sociali fosse indipendente dalla teoria. I socialisti predicano fratellanza e
solidarietà ma non riescono a praticarla, dividendosi costantemente in fazioni.
"Il socialismo è stato un'infaticabile fabbrica di teorie e di modelli
sociali, ma ha finito per prevalere il settarismo: ogni corrente ha ritenuto
che il proprio modello ideale fosse migliore di quello degli altri. Da qui
deriva la tragedia della sinistra italiana: gli avversari dentro lo
stesso campo politico diventano i principali nemici. Ed è un destino che ha
colpito anche la mia generazione".
Nel libro racconti come nasce la scintilla socialista. Ma in te quando è
scoccata la fiammella della sinistra?
"Il primo a parlarmi di politica è stato uno zio che abitava accanto a
casa mia a Dronero. Era anticlericale come mio padre e lo ricordo seduto in
poltrona immerso nella lettura dell'Espresso formato
lenzuolo".
Un liberale di sinistra?
"No, decisamente un uomo di sinistra. Poi sono andato avanti confusamente
per conto mio. Con un vantaggio enorme rispetto alla leva precedente: la mia
generazione è arrivata alla politica adulta con il Sessantotto e l'invasione
della Cecoslovacchia per cui non ha dovuto sciogliere il nodo del sovietismo.
Ci siamo tutti battezzati alla politica diventando contemporaneamente di
sinistra e antisovietici".
Tu facevi politica?
"No, non direttamente. La facevo attraverso i giornali che inventavo
ovunque io fossi: prima in collegio, poi al liceo, e nel mio paese,
dove ancora escono regolarmente alcune di quelle testate. La prima volta fu in
terza media: ero compagno di classe del figlio del tipografo di Dronero che
aveva un ciclostile. Ma la preside mise fine bruscamente all'avventura".
Cosa voleva dire essere di sinistra?
"Nella parte d'Italia dove vivevo, nel basso Piemonte al confine con la
Francia, significava stare all'opposizione rispetto al potere politico: era una
zona fortemente democristiana che in questi ultimi decenni ho visto mutare dai
toni felpati della Dc all'urlo leghista. Allora lo scudocrociato era il nostro
avversario. Con i miei amici passavamo ore a sfigurare i loro volantini in
sostegno di questo o quel sindaco: al posto del "sì" incollavamo un
"no" e poi facevamo volantinaggio nel segno del rovesciamento".
Un incontro che ti ha segnato?
"Norberto Bobbio, professore di Filosofia del diritto: è stato il primo
corso che ho seguito alla facoltà di Legge, a Torino. Una volta entrò in classe
buttando la cartella sul tavolo: erano appena accaduti i fatti di Avola e
Battipaglia, le rivolte contadine soffocate dalla polizia nel sangue. Ha
cominciato a camminare su e giù davanti alla cattedra e con uno dei suoi scatti
nervosi si è rivolto a noi: ma insomma, alla vostra età e con quel che è
successo, non avete niente di meglio da chiedermi che farvi lezione? Fece una dissertazione
sulla violenza".
Poi hai approfondito l'amicizia grazie al lavoro.
"Mi ricordo la lunga lettera che gli scrissi nel 1990 durante il volo da
Mosca a Torino. Ritornavo alla Stampa come condirettore
accanto a Paolo Mieli, dopo tre anni di corrispondenza in Urss per Repubblica.
Sentivo il bisogno di raccogliere i vari pezzi della mia esperienza
giornalistica - cronista del terrorismo, giornalista parlamentare, il lavoro in
Russia durante la perestrojka - per impostare la fase nuova che mi aspettava.
La Stampa rappresentava un potere forte, la
Fiat. Ed era radicata nel quotidiano la linea culturale
dell'azionismo. A me interessava l'autonomia del giornale dalla politica, e
l'autonomia della politica dai poteri forti. Avvertivo l'urgenza di dialogare
su questo con Bobbio. Si può dire che ho sempre cercato la sinistra. Anche
attraverso il mio lavoro".
Sulla Stampa, sotto la tua direzione, le voci dell'azionismo erano
molto presenti in prima pagina.
"Era giusto che trovassero libera espressione. E anche Repubblica è
stata il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della
sinistra italiana. In questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi
mi abbia detto: azionista! Io tra me e me rispondevo: magari...".
Nel libro racconti la Torino del primo Dopoguerra dove avviene l'incontro tra
Gramsci e Gobetti, tra la matrice comunista e la cultura liberale che si apre
al socialismo. Quanto ha contato la memoria storica di Torino nella tua
formazione?
"Moltissimo. È qui che è cominciato il mio lavoro di cronista. La Gazzetta
del Popolo è stato un grande amore dove ho fatto anche il sindacato:
chiuso nel 1974, il giornale continuò a uscire grazie a una cooperativa di
giornalisti e poligrafici. Lavoravamo di giorno e di notte occupavamo la
redazione, con grandi avventure, grandi amori, grandi amicizie. Quello che ho
imparato politicamente lo devo al mestiere. Soprattutto negli anni del
terrorismo, che è stata la guerra della mia generazione".
In che modo ne è uscita fortificata la tua coscienza di sinistra?
"Nell'ottobre del 1977 le Br gambizzarono Antonio Cocozzello,
un consigliere comunale democristiano che era stato protagonista delle lotte
contadine in Basilicata. Aveva studiato grazie al sindacato. Arrivai quando i
soccorritori gli stavano tagliando i pantaloni: lo vidi a terra, dolorante, le
mutande da mercato che poteva avere mio nonno. Mi indicò una cartellina di
plastica marrone: per favore, portala alla Cisl, dentro ci sono le pratiche di
due pensionati. Tornato al giornale, lessi il comunicato dei terroristi che lo
indicava come "servo delle multinazionali". Il giornalismo mi ha
messo sempre davanti i fatti, aiutandomi a capire come stanno
veramente le cose".
Hai sempre votato a sinistra?
"Sì, ma ponendomi ogni volta una domanda: cosa serve al Paese che io
faccia? E la risposta è sempre stata il voto a sinistra".
Hai avuto rapporti più stretti con qualcuno dei leader storici del Pci?
"Ho incontrato molte volte Giancarlo Pajetta, sia a Torino che
a Mosca. E ho avuto un buon rapporto con Enrico Berlinguer, anche se
intorno a lui si formava sempre un semicerchio di rispetto: la sua estrema
riservatezza ti obbligava a un passo di distanza. Ma alla fine di
un'intervista, nella sua stanza di Botteghe Oscure, mi sorprese parlandomi di
Juventus".
Chi speravi fosse il suo successore alla guida del partito?
"A un certo punto ho sperato in Luciano Lama, un leader dalla personalità
carismatica. Mi ricordo le lunghe chiacchierate davanti alla sua scrivania di
ferro. Quando Lama morì, l'avvocato Agnelli mi raccontò di essere andato a
trovarlo nei giorni della malattia e che lo fece sedere sul suo letto.
"Oggi posso dire quello che disse mio nonno quando morì Bruno Buozzi: è
morto un galantuomo"".
Li hai frequentati sempre per lavoro?
"Sì. Anche se posso dire di aver visto Alessandro Natta in pigiama. Lo
seguii in Cina per una visita a Deng Xiaoping, che ci apparve con una potenza
scenica straordinaria. Una notte arrivò dall'Italia la notizia del conflitto su
Sigonella tra il presidente del consiglio Craxi e l'amministrazione americana.
Ci precipitammo a svegliare il segretario del Pci. Ma Natta si rifiutò di fare
dichiarazioni".
Quando hai visto cambiare i comunisti?
"Il cambiamento era cominciato nel 1981, con lo strappo da
Mosca. Ma purtroppo non li ho visti cambiare abbastanza. Berlinguer ha fatto il
passo più importante, ma era tutto interno all'orizzonte comunista. È una
questione che ho discusso con Gorbaciov a Mosca: anche il segretario del Pcus
era riuscito a dare una spallata decisiva al sistema sovietico, ma ne è rimasto
dentro. Non è stato capace di trovare l'apriscatole che lo proiettasse
fuori".
Dalla Russia ti sei portato indietro amicizie comuniste?
"L'unica fotografia che conservo è quella insieme a Sacharov, il fisico
dissidente riabilitato da Gorbaciov nell'86. Ci vedevamo spesso a casa sua, in
cucina, insieme alla moglie Elena Bonner. Si sarebbe potuto accomodare nel
ruolo dell'ex perseguitato omaggiato dal mondo, invece aveva a cuore il
cambiamento radicale del sistema sovietico, con la battaglia per i diritti:
immune da qualsiasi spirito vendicativo, guardava in avanti".
Oggi lamenti che la sinistra in Italia non abbia un nome e un'identità.
"I due nomi che l'hanno definita nel secolo precedente sono durati uno
troppo a lungo, il comunismo, finito solo dopo il crollo del Muro di Berlino, e
l'altro troppo poco, il socialismo, suicidatosi in una pratica politica
condannata da Tangentopoli. I socialisti avevano le ragioni della storia, ma
non le hanno sapute tradurre nella politica. I comunisti hanno avuto la forza
politica senza avere le ragioni della storia. E non sono stati capaci di fare
il rendiconto conclusivo. Per anni ho sperato che socialisti e comunisti
risolvessero la loro dannazione, ma così non è stato".
Che cosa significa per te essere di sinistra?
"Significa credere nella possibilità di un cambiamento, mettendosi dalla
parte di chi ne ha più bisogno. Ho gli stessi amici dai tempi del liceo e ogni
volta ci diciamo: ci siamo tutti - più o meno - e siamo ancora intatti, nel
senso che siamo rimasti fedeli a un'identità che è anche la cifra del nostro
stare insieme".
A chi guardi per il futuro della sinistra italiana?
"Tanti anni fa mi sono augurato un papa straniero. Oggi spero che una
nuova figura venga da quella che Turati definiva la "borghesia
del lavoro": qualcuno che voglia spendere le sue esperienze di vita e le
sue competenze nell'avventura della sinistra italiana. Il problema è
che se questo potenziale leader vuole cercare la casa del partito della sinistra
italiana fatica a trovarla. Probabilmente non c'è il campanello sul
pianerottolo e, se bussa alla porta, nessuno va ad aprirgli. Ma io finisco il
mio libro con una ragazza che cuce il simbolo sulla bandiera rossa. Forse è
arrivata l'ora del grande rammendo allo strappo del 1921".
Sul Venerdì del 20 novembre 2020
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