L'immagine della IV di copertina riproduce l'opera
di Minico Ducato, "Portella della Ginestra"
La mia introduzione al libro “La strage più lunga. Calendario della memoria dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento contadino e bracciantile, caduti nella lotta contro la mafia (1893-1966)”, da ieri in tutte le librerie online.
Quando vidi i morti giacere insepolti,
preda degli avvoltoi, della dimenticanza e dell’indifferenza decisi
di rimanere perché le migliaia e le migliaia di anime sapessero che
una memoria d’amore le ricordava tutte ad una ad una.
Il soldato Mizushima nel film
“L’arpa birmana”
DINO PATERNOSTRO
Qualche
anno fa, dissi ad un mio caro amico che stavo lavorando ad una ricerca storica
per redigere le schede dei dirigenti sindacali e degli attivisti del movimento
contadino e bracciantile, caduti nella lotta contro la mafia in Sicilia. Ed
egli mi parlò della storia del soldato giapponese Mizushima raccontata nel film
L’arpa birmana.
«Il coinvolgimento etico con cui mi parli di questa tua ricerca – mi disse – mi
fa venire alla mente questo soldato, che si diede come missione della vita
quella di dare “memoria d’amore” ed una “sepoltura” ai tanti morti insepolti».
Forse sarà un po’ retorico, ma l’idea che le centinaia di caduti del movimento contadino e bracciantile siciliano «sapessero
che una memoria d’amore le ricordava tutte ad una ad una» mi ha molto
affascinato. E mi ha convinto ancora di più a continuare una ricerca che avevo
cominciato già alla fine degli anni Settanta, quando mio padre e gli anziani
contadini della Camera del lavoro di Corleone mi parlavano di Bernardino Verro
e Placido Rizzotto. Ne avrei voluto sapere di più, ma gli storici del movimento
contadino di questi personaggi parlavano solo per accenni.
Allora
cominciai a fare delle ricerche, sui giornali dell’epoca e negli archivi, e
vennero fuori le prime biografie di Rizzotto e Verro e poi tutte le ricerche
successive, che mi hanno portato a pensare che
contro il movimento contadino e bracciantile è stata consumata una vera e
propria strage, la strage “più lunga” della storia d’Italia, una strage al
rallentatore, durata un secolo. Non a caso cominciamo da un’anteprima di
stragi, quella consumata a Bronte, in provincia di Catania, nell’agosto 1860,
emblematica ed antesignata delle altre. Lo schema, infatti, è sempre lo stesso:
da un lato i contadini che rivendicano il diritto alla terra e alla libertà;
dall’altro il padronato, la mafia e pezzi dello Stato che rispondono con la
violenza, il terrore, il sangue.
L’elenco
dei caduti è lungo. Spesso, però, è composto soltanto da una sequenza di
cognomi e nomi, non di rado imprecisi e persino errati. Per esempio, non è mai
esistito Agostino D’Alessandro, assassinato a Ficarazzi il 10 settembre 1945,
che pure circola in tanti elenchi, ma Agostino D’Alessandria. Il sindacalista
di Caccamo, assassinato il 7 agosto 1952, si chiamava Filippo Intili, non
Intile. Non esiste una Marina Spinelli, caduta a Favara il 16 maggio 1946, ma
Tommasa (Masina) Perricone, assassinata il 7 marzo 1946 a Burgio. In questo
caso, si tratta di un errore clamoroso, che riguarda non soltanto il nome e il
cognome, ma anche la data e il luogo in cui questa povera donna venne
assassinata per caso, nel corso dell’attentato in cui rimase ferito il
candidato sindaco di Burgio, Antonino Guarisco. E, per quanto possa sembrare
incredibile, il Paolo Farina, assassinato a Comitini il 28 novembre 1946, si
chiamava in realtà Filippo Forno. Ancora più clamoroso il caso di tre
sindacalisti, dati per morti nel famoso manifesto del Fronte Democratico
Popolare, ma in realtà vivi. «Nell’elenco delle persone indicate come morte nel
noto manifesto elettorale – poté scrivere Scelba, attaccando duramente la
sinistra – risultano comprese le seguenti che, invece, sono vive e godono di
ottima salute: Antonino Guarisco, Vincenzo Cucchiara e Giovanni Savarino». Proprio
di ottima salute non dovevano godere, perché rimasti gravemente feriti negli
attentati di cui erano stati vittime. Ma fu un errore grave inserirli nel
manifesto, dettato probabilmente dall’infuocato clima elettorale che precedette
le elezioni politiche del 18 aprile ‘48. Incredibilmente, però, sia il nome di
Guarisco sia quello di Savarino sono stati inseriti nell’elenco ufficiale della
l.r. 20/1999, approvata dall’Assemblea Regionale Siciliana, insieme ai nomi
inesistenti di D’Alessandro, di Marina Spinelli e di Paolo Farina.
Questa
ricerca ha l’obiettivo di riparare a tali errori, ma principalmente di
ricostruire i profili biografici dei tanti dirigenti ed attivisti del movimento
contadino e bracciantile, caduti nella lotta contro la mafia e per la costruzione
della democrazia in Sicilia. Nomi e cognomi non sono soltanto dei segni su un
foglio di carta, ma identificano persone che agivano in un determinato contesto
sociale e politico, che avevano padri, madri, mogli (o mariti) e figli. I
sindacalisti ammazzati nel fiore dei loro anni (mediamente tra i trenta e i
quarant’anni) hanno costituito sicuramente una ferita per la democrazia, ma la
loro morte è stata una tragedia immane per le loro famiglie, che spesso
rimasero nell’assoluta povertà, senza una prospettiva di futuro. Ne abbiamo
conosciute tante di queste famiglie. Siamo andati a trovare tanti figli e tanti
i nipoti di questi sindacalisti assassinati dalla mafia.
Quanta
emozione la sera del 7 agosto 2014, quando abbiamo incontrato per la prima
volta, a Casteldaccia, Santa Raia, la figlia allora quasi novantenne di Andrea
Raia! Quanta tenerezza in quel suo prenderci sottobraccio e portarci, passo
dopo passo, al civico n. 5 di via Butera, la casa dove i Raia abitavano:
proprio davanti a quella porta i killer della mafia avevano ucciso il padre.
Quanta
tristezza nella voce di Pietro Li Puma, l’anziano figlio di Epifanio, quando ci
confessò che, dopo l’assassinio del padre, lui, i suoi fratelli e sua madre
rimasero «nudi»!
Antonella
Azoti, figlia di Nicolò, per più di quarant’anni tenne dentro il dolore e il
risentimento verso il padre, assassinato la sera del 21 dicembre 1946. Quasi lo
considerava colpevole di averla lasciata orfana. Non capiva. Poi capì. Dopo la
strage di Capaci capì. E nel trigesimo, sotto l’albero Falcone, prese il
microfono e gridò che anche suo padre era stato ucciso dalla mafia perché
voleva libertà e giustizia. Antonella oggi è una nostra “sorella”, insieme a
lei “parliamo” all’Italia.
E Antonio Pipitone, figlio di Vito, dopo settant’anni dall’assassinio del padre, ancora piangeva ricordando i fratelli e la mamma che non riuscivano a capire, non riuscivano a farsi una ragione, del perché un uomo buono con tutti come il padre fosse stato assassinato in una stradella di campagna a Marsala.
E
finalmente, il 5 dicembre 2018, a Palermo, in occasione dell’inaugurazione di
una strada a Giuseppe Puntarello, assassinato il 4 dicembre 1945 a Ventimiglia
di Sicilia, abbiamo potuto conoscere la figlia Alfonsina di 92 anni. Non aveva
mai voluto partecipare alle manifestazioni organizzate nel suo paese per
ricordare il padre. E non aveva mai voluto parlare del padre come di una
vittima innocente di mafia. Continuava a sostenere (per difendersi dal dolore)
che il padre fosse stato ucciso per un tragico errore. Pensare così la faceva
soffrire meno. Adesso, finalmente, ha capito che suo padre è uno degli eroi di
Sicilia.
Con la
CGIL di
Palermo ci siamo dati l’obiettivo di redigere questo nostro calendario della
memoria da condividere con i familiari delle vittime, alle quali abbiamo
chiesto scusa per i tanti (troppi) anni di silenzio.
Questo volume, questa raccolta di schede biografiche, è un omaggio ai caduti e alle loro famiglie. Ma è anche un omaggio alla Sicilia democratica, che ha sacrificato alcuni dei suoi figli migliori per liberarsi dalle schiavitù legate al feudo. Non si tratta solo di un omaggio ad un passato, seppure glorioso, ma anche dell’indicazione di una strada per costruire futuro. Un futuro che si ponga l’obiettivo di creare lavoro e sviluppo nella legalità, partendo dalla risorsa agricoltura e dai valori di libertà, democrazia e solidarietà, di cui sono stati portatori questi nostri caduti ed il movimento che rappresentavano.
È la
strada che ci hanno insegnato i nostri martiri e che più recentemente ci sta
indicando anche un “prete di strada” come don Luigi Ciotti, fondatore
dell’associazione Libera, per unire memoria e amore per le vittime innocenti di
mafie con l’impegno concreto e quotidiano per cambiare un ordine sociale ed
economico ingiusto.
Abbiamo
voluto inserire anche una scheda su Pio La Torre, alla luce della nostra
recente ricerca, che pone in evidenza come egli rappresenti un patrimonio
importante della CGIL e
della sua storia per i diritti e il lavoro.
Ci è sembrato doveroso dedicargli una scheda biografica in
questo calendario della memoria, anche se esula dallo schema originario, per far
comprendere meglio il contributo storico e politico del movimento dei
lavoratori siciliani nella lotta per i diritti e contro la mafia.
Dino Paternostro
Nessun commento:
Posta un commento