Walter Veltroni
di FRANCESCO BEI
Walter Veltroni, fra i segretari del Pd che si sono succeduti fino a oggi,
di certo è stato il più “americano”. Dal kennediano I Care del
Lingotto, fino allo Yes, we can di Obama, Veltroni ha provato a
ibridare il vecchio fusto della sinistra italiana con gli innesti e le
suggestioni che venivano dal partito democratico Usa. Con la vittoria di Biden,
di nuovo si può aprire una stagione feconda anche per il centrosinistra
italiano. A patto, ammonisce Veltroni, che non si imbocchi la strada «sbagliata
e pericolosa» del ritorno alla proporzionale.
«Provo a fare un’analisi razionale mettendo da parte il sentimento di autentica gioia e liberazione che accompagna la sconfitta di Trump. Bisogna riconoscere che questo presidente ha dato un’identità al partito repubblicano, che nel passato oscillava di volta in volta tra le sue componenti più moderate ed estremiste. Esemplare il ticket delle elezioni 2008, John McCain-Sarah Palin».
Ha riunito il partito repubblicano nel segno del populismo?
«Trump ha galvanizzato un’America che chi osserva solo New York e San
Francisco non vede. È l’America rurale, l’America della camicie a scacchi e
talvolta dei fucili dentro casa. È anche l’America di certa disperazione
sociale, rispetto alla quale non bisogna avere un sopracciglio alzato ma
cercare di capirla e interpretarla. A questa America Trump è stato capace di
dare un’identità, come in generale sanno fare i populisti, evocando rabbia e
disagio e scagliandoli contro il resto del mondo. Detto questo, comunque è
stato sconfitto ed è stato sconfitto da presidente uscente. Cosa rara negli
Usa».
Trump ha seminato sul cemento o è destinato ad avere un’eredità politica?
«Chi pensa che, con la sconfitta di Trump, ci siamo liberati del populismo
sbaglia. Ma probabilmente si sta girando pagina ed è interessante capire
perché, a dispetto di tutti gli atteggiamenti ingiusti nei suoi confronti,
anche da parte dell’opinione pubblica più liberal, un uomo come Biden sia
riuscito a vincere».
Già perché? Biden sembra un uomo non adatto alla ribalta, come il
commissario Buonvino dei suoi gialli: un anti-leader…
«In effetti ha tre caratteristiche che sembrano alternative al mainstream dominante, in cui si va a caccia di un modello di leadership esattamente all’opposto: è un uomo di 78 anni, un politico navigatissimo, un uomo inclusivo. Appariva ai più come una soluzione di ripiego. Invece ha avuto l’intelligenza di includere sia chi andava in piazza con il Black lives matter, sia i repubblicani moderati. La sua vittoria in Arizona, con la partecipazione attiva della vedova di John McCain o quella in Georgia, dove si sono mobilitati gli eredi di John Lewis, protagonista della marcia di Selma, sono la dimostrazione di questo talento».
In Italia è subito iniziata una discussione se, con Biden, abbia vinto il centro o la sinistra. Secondo lei?
«Biden ha vinto come vincono i democratici, portatori di un sistema
autonomo di valori, di issues programmatiche che tengono insieme la radicalità
e il riformismo. Quella stessa cultura democratica ha portato prima Obama a
essere il primo presidente nero e ora una donna straordinaria a divenire
vicepresidente. Due gigantesche spallate a due tetti eufemisticamente chiamati
di cristallo».
La formula da copiare è dunque racchiusa nell’ossimoro “riformismo
radicale”?
«Quando il pensiero democratico riesce a tenere insieme la radicalità,
ovvero l’idea che il cambiamento sia una sfida dolorosa, che contrasta con
poteri, con pregiudizi, con antiche abitudini e privilegi, restando al tempo
stesso inclusivo, anche nel modo di presentarsi al Paese, allora determina
entusiasmo. La forza del pensiero democratico è in questa sintesi».
In Italia c’è qualcuno che assomiglia a Biden?
«In Italia non c’è un sistema presidenziale, non serve un uomo solo. Serve
una grande idea collettiva, capace di motivare milioni di persone, quel grande
popolo che crede in valori progressisti».
Biden è riuscito a formare una coalizione “costituzionale” dai ragazzi
di BLM ai repubblicani moderati. Il centrosinistra ne sarà capace?
«È chiaro che il sistema elettorale genera dei comportamenti politici. Le faccio io una domanda: tra Sanders e Biden ci sono più o meno differenze di quelle che ci sono tra i diversi soggetti che compongono la complessa area del centrosinistra in Italia?»
Credo molte di più…
«Esatto, però quelle differenze in Usa convivono all’interno dello stesso
partito e combattono insieme. È la vocazione maggioritaria, un’espressione che
io presi da Francois Mitterand. Ci vuole una legge elettorale che consenta
questo processo e il formarsi di coalizioni che chiedano ai cittadini di essere
scelte sulla base di programmi e valori condivisi e che governino per una
legislatura».
Allora stiamo freschi, da noi andiamo verso una legge proporzionale pura…
«Per questo sono molto preoccupato. Ho l’impressione che si stia prendendo
la strada sbagliata nel momento sbagliato. Siamo di fronte a una situazione
drammatica, per le decine di migliaia di persone morte, per i ragazzi che non
vanno a scuola, per le persone che perdono il lavoro e per le imprese che
chiudono, per il grande debito che stiamo contraendo. L’Italia nei prossimi
anni avrà bisogno di governi stabili, decisi dai cittadini».
Una condizione impossibile con la proporzionale?
«Noi abbiamo avuto 6 governi in 9 anni e non uno deciso dai cittadini. Da quando è iniziata questa legislatura 110 parlamentari hanno cambiato partito, facendo carta straccia del voto dei cittadini. Non è normale che in un paese, nel corso di un anno, si passi con gli stessi protagonisti da un governo con la destra a uno con la sinistra. I governi nel nostro paese nascono sempre contro, non per, non mossi da un disegno coerente di mutamento. Può accadere in una fase di emergenza, come è stato l’anno scorso, ma non può essere quella la consuetudine».
Ci vuole ora un governo nuovo?
«Assolutamente no, qualsiasi ipotesi di crisi, di indebolimento del governo
o di rimpasto in questo momento sarebbe un grave danno per l’Italia. Però
considero anche molto rischioso il ritorno alla proporzionale, ai governi di
coalizione, ai vertici con i capidelegazione, alle verifiche, alle spartizioni,
alle soglie di sbarramento che si abbassano sempre di più. Il pericolo è che si
svilisca la rappresentanza, alimentando la tentazione di scorciatoie
autocratiche».
Ma i 5 stelle non ci staranno mai a finire in una coalizione stabile di
centrosinistra non crede?
«Il discorso vale anche per loro. Il M5S ha maturato una rottura verso il populismo e la destra estrema, oggi ad esempio non penso che nessuno di loro andrebbe a esprimere solidarietà ai gilet gialli. Ci sono state evoluzioni positive, ma ora è il tempo delle scelte. Si tratta di decidere se si partecipa, con la propria autonomia, a un progetto riformista oppure no. Biden ha dimostrato che il populismo si batte con il riformismo, non con un altro populismo».
Con Trump finisce anche la stagione del sovranismo italiano? Cosa succederà a destra?
«Anche la destra italiana deve decidere che strada prendere. Se scimmiotta
il populismo alla Bolsonaro è destinata a una sconfitta, se assume le
caratteristiche di una destra repubblicana e costituzionale, portatrice dei
suoi legittimi valori, diventa un elemento di equilibrio del sistema, che deve
trovare un meccanismo di naturale alternanza».
Sul tavolo del centrosinistra ci sono due idee. Quella di Bonaccini, con
tutte le diaspore che rientrano nel Pd. L’altra è il campo largo di Bettini, in
cui ogni singolo partito si rivolge a un segmento dell’elettorato: Renzi e
Calenda ai moderati, il Pd e Leu alla sinistra. Quale condivide?
«È chiaro che, se si va verso un sistema proporzionale, ciascuno tenderà a
mettersi in proprio, si avrà una frammentazione del centrosinistra. Il Pd nasce
in un habitat tendenzialmente bipolare».
E il Pd dopo Biden come dovrà essere?
«La prima dichiarazione di Biden è stata: gli Usa torneranno agli accordi
di Parigi sul clima. Il focus è quello. Mi piacerebbe che la sinistra italiana
diventasse una grande forza ambientalista, ecologista e del lavoro. Le due
cose, che prima potevano apparire in conflitto, oggi sono vitalmente legate.
L’Italia ha bisogno di un Pd e di uno schieramento democratico che alzino la
bandiera di un riformismo molto radicale, dai temi ambientali a quelli
dell’istruzione e del lavoro».
La Repubblica, 10 nov 2020
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