Joe Biden
di Martino Mazzonis
Joe Biden sarà il 46esimo presidente della storia degli Stati Uniti. C’è voluto un po’ per esserne sicuri, ma il ricorso massiccio al voto per posta lasciava presagire tempi lunghi per la proclamazione del vincitore della corsa verso la Casa Bianca. La vittoria democratica non è una sorpresa, le sorprese sono piuttosto quelle relative alle sconfitte democratiche alla Camera e alla capacità di Donald Trump di ampliare la propria base elettorale di 5 milioni. La partecipazione al voto senza precedenti non si è tradotta in un’onda blu, ma in due onde enormi e dirette nelle direzioni opposte. Gli ultimi sondaggi lasciavano intuire un recupero del presidente, che come quattro anni fa è riuscito a portare ai seggi segmenti di popolazione che normalmente non vota e probabilmente a drenare molti dei 4 milioni e mezzo di voti raccolti nel 2016 dal candidato libertario Gary Johnson.
Resta la sorpresa per la capacità di questo presidente di mantenere un consenso tanto alto nonostante i toni, gli scandali e il disastro Coronavirus. La sua capacità di portare persone alle urne ha anche favorito il suo partito e non a caso, per la seconda volta consecutiva, i seggi al Senato coincidono con il voto degli Stati per il presidente.Un consenso tanto massiccio dopo una presidenza tanto scomposta e fuori dalle regole, scandita da scandali, condanne di collaboratori e dimissioni in serie delle figure più rispettabili, segnala quanto siano radicati nella società americana i sentimenti che hanno portato al primo successo del messaggio nazional-populista del presidente. Che l’America fosse divisa lo sapevamo, che quasi la metà degli americani fossero tanto arrabbiati o spaventati dal mondo in cui vivono da aggrapparsi a un messaggio identico a quello di quattro anni prima, dovrebbe preoccupare. Il successo dei repubblicani nel mantenere il Senato e i passi in avanti fatti alla Camera, tra l’altro, rendono più complicata l’ipotesi di un ripensamento del modo di fare politica. Nell’immediato il Grand Old Party è ancora il partito di Trump. Su questa capacità della politica di fare e dire qualsiasi cosa e lo stesso non perdere consensi, ci sarà da riflettere a lungo. C’è un mondo che teme il cambiamento, ha paura che il Partito democratico, anche un partito democratico guidato da Biden, sia un ascensore per l’inferno della globalizzazione, della multiculturalità e della perdita di centralità della middle class bianca con reddito medio-basso.
In tante aree rurali d’America il futuro radioso che immaginava per sé e per i propri figli non c’è più e preferisce la promessa di un ritorno al passato, anche dovesse costare violenze e discriminazioni e cedimenti in termini di democrazia.
Secondo gli elettori di Trump che hanno risposto agli exit poll la prima preoccupazione era l’economia e la necessità di farla ripartire. Un contrasto netto con quelli democratici, per cui l’urgenza è quella di contenere il Coronavirus. Due filosofie e punti di vista, nonostante gli elettori democratici che appartengono alle minoranze siano anche e spesso i lavoratori più colpiti dalle chiusure decise dagli Stati.
Joe Biden dal canto suo è riuscito nel suo intento: la scelta di mantenere un profilo sobrio, toni pacati, il messaggio unitario ha pagato. Non in termini assoluti, ma per quello che era l’obiettivo primario del candidato: riprendere a Trump quegli Stati vinti per un soffio nel 2016. Il fatidico Blue Wall. Il messaggio ha funzionato meno per convincere gli ispanici (che sono tutto fuorché un gruppo omogeneo) e gli afroamericani: gli exit poll segnalano che entrambi i gruppi hanno scelto i democratici a larghissima maggioranza, ma in percentuali leggermente inferiori che nel 2016. Il candidato bianco, anziano e working class ha dunque usato al meglio le sue caratteristiche, ma non ha saputo galvanizzare gli altri. La mancanza di una vera campagna elettorale ha depotenziato l’effetto della scelta di Kamala Harris come vice, che era il potenziale elemento vivace, la novità del ticket presidenziale. La mancanza di comizi ha anche reso meno efficace l’utilizzo di Obama e di altre figure capaci di intercettare nuovi voti. Ciò detto, nessun presidente eletto aveva mai preso tanti voti e i democratici hanno fatto passi in avanti in molti Stati. Il loro è un successo a metà solo ed esclusivamente per la capacità di Trump accompagnata alla loro poca presa su alcuni segmenti di quella che fu la coalizione obamiana. Ma forse per parlare ai latinos si sarebbero dovuti toccare temi che avrebbero allontanato quei voti che Biden voleva riprendere.
Biden ha anche parlato spesso della volontà di tendere una mano ai repubblicani in Congresso, sperando che parlando del bene della nazione, un bene superiore, si possa farli ragionare, spingerli a fare dei compromessi. Una finestra possibile potrebbe essere la transizione: i repubblicani hanno tenuto e i democratici potrebbero favorire un compromesso per tamponare la crisi economica prima dell’insediamento del nuovo presidente.
Per Biden sarà comunque difficile. La sua candidatura segnala che il moderatismo non è la chiave per riconquistare il voto degli arrabbiati. Il presidente dovrà lavorare con un Senato ostile e con un Partito democratico con anime molto diverse al proprio interno. In molti stanno già dicendo: con un’agenda diversa e parlando di più e meglio agli ispanici avremmo ottenuto un successo ben più rotondo. Non è detto che sia così, ma non è un argomento senza fondamento. Dalla sua il nuovo presidente ha l’enorme esperienza di governo e una conoscenza dei meccanismi del Congresso – e persino molti dei senatori del partito avversario.
Ci sarà tempo per guardare al formarsi dell’amministrazione, per adesso c’è da attendere la fine del pericoloso tentativo di Trump di far deragliare il processo democratico. Già da come si svolgerà questo passaggio di poteri potremo farci un’idea di cosa attende gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni.
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