di SANTO LOMBINO
«Espressione degli strati più umili della popolazione, la religione popolare, pur avendo caratteri propri, che la distinguono dalla religione colta, mantiene con questa rapporti di interdipendenza e contiguità. La prima riduce a dimensioni più domestiche e familiari il senso religioso, ma trae quasi sempre forme e contenuti dal patrimonio rituale e dottrinario della religione ufficiale»[1]. Così scriveva alcuni anni or sono Giuseppe Governali, studioso ed educatore di grande spessore culturale ed umano, docente e preside del Liceo “G. Colletto” di Corleone, scomparso qualche anno fa. A questa concezione si può fare riferimento leggendo il poema in versi Da li tenebri a la luci e da Eva a Maria con sottotitolo Poemettu sacru in XV canti chi cumpendianu li misterii di lu s. Rusariu di Biagio Palazzo da Corleone, stampato a Palermo nel 1916 presso la tipografia Giliberti in via Celso, tipografia chiusa dopo la seconda guerra mondiale[2]. L’opera è stata nel marzo 2020 pubblicata in ristampa anastatica dalla tipografia Cortimiglia a cura della casa editrice Palladium di Corleone, nella collana “Ragnatele culturali. I protagonisti della narrativa” diretta da Patrizia Virgadamo, con ampia e acuta prefazione di Giovanni Perrino.
Quest’ultimo fa conoscere al lettore le
difficoltà incontrate nell’individuare l’autore del volume, dato che l’anagrafe
della cittadina di Corleone registra più persone dello stesso nome e dello
stesso cognome, che di lui non c’è cenno alcuno nelle opere storiografiche che
ricostruiscono la vicenda storico-culturale di quel comune, e che allo stesso nome
non viene associata nel tempo alcun’altra opera letteraria. A conclusione di un
lungo percorso, pare che si possa attribuire l’opera a un Biagio Palazzo nato
nel 1847.
La pubblicazione è frutto della meritoria
scelta compiuta da un collettivo di studiosi che ha deciso di portare a
conoscenza del più vasto pubblico l’opera in versi ritrovata nella biblioteca di
Giuseppe Virgadamo, figura di studioso di grande caratura, definito «uomo di
scuola, amante della lettura e appassionato bibliofilo».
«L’intento che ci ha mosso – scrive Giovanni
Perrino, poeta, docente, operatore culturale da anni ambientato in Lombardia –
non è stata l’operazione di salvataggio in sé, quanto quello di fare qualcosa
per noi, cittadini di un luogo importante e ricco di storia. L’abbiamo fatto
nel segno della cittadinanza attiva, ma anche nella condivisione che troppo
spesso la sofferenza è storia non raccontata e dare parole al passato è un modo
per curare il presente, il nostro presente» [3].
«Il lavoro di Palazzo
– continua Perrino – appare prezioso per tre buone ragioni: il codice
linguistico usato che è la parlata spontanea e popolare del
territorio ancor oggi largamente usata, l’uso della quartina e
dell’endecasillabo, codificato dalla metrica classica italiana, che denota una
stupefacente conoscenza della tecnica compositiva e infine
l’approccio religioso da cui emerge una profonda conoscenza dei testi
sacri mai disgiunta da un preciso intento pedagogico»[4].
Caratteristica fondamentale del poemetto,
composto di 2.800 endecasillabi e 700 quartine è infatti la scrittura in quel dialetto
dell’entroterra siciliano che viene ancora oggi parlato a Corleone e dintorni,
con lessico e forme espressive diverse da quello che si parlava e si parla nel
capoluogo dell’Isola, distante 60 chilometri. È molto probabile che gli
ambienti ecclesiastici e intellettuali dell’epoca in cui il libro è uscito
dessero scarsa importanza al poema in quanto il dialetto godeva allora di
limitata considerazione quando non di vero e proprio disprezzo, mentre in epoca
recente, anche grazie alla grande lezione di Ignazio Buttitta, di altri poeti e
di linguisti di alta levatura, è venuta
meno la discriminazione verso le parlate dialettali, ormai valorizzate in
quanto “lingue materne”, genuina maniera di esprimersi dei ceti popolari,
meritevoli di studio e di attenzione come la lingua nazionale. L’autore non
ignora che la maggioranza dei suoi lettori faceva sicuramente uso del siciliano
nella comunicazione quotidiana: adottandone il “volgare eloquio” vuole
probabilmente che la storia narrata venisse da loro sentita come qualcosa che li
riguarda da vicino e non una serie di eventi lontani nel tempo e nello spazio. «Biagio Palazzo intuisce – annota ancora Perrino –, come
poi avrebbe scritto Pasolini, che, prima ancora che lingua di comunicazione, il
dialetto è un mezzo di costruzione della coscienza identitaria, ciò che
consente il contatto con il reale in modo binario, sia attraverso la ragione
sia attraverso l’istintualità della lingua materna. Il dialetto è un tramite
essenziale col mondo, il solo che consente la nominazione degli oggetti e la
percezione di questi in quanto reali».
Contraddicendo questa preferenza per la scrittura in siciliano, la sintetica dedica dell’autore è titolata “Lettore mio”[5] ed è scritta in italiano. In essa Palazzo esprime senza incertezze la sua poetica e spiega apertis verbis il suo obiettivo fondamentale. Scrive infatti: «il genio mi spinse ad alta musa e mi spinse tanto in alto senza che io me ne accorgessi. Ardito fu il passo, lo confesso, ma chi può opporsi mai all’impulso del cuore?». Questa energia endogena lo ha quindi spinto quasi a sua insaputa verso mete altissime e inattese, portandolo dove non si aspettava di arrivare. Sembra di leggere «I’ mi son un che quando amor mi spira noto…»[6] che Dante rivolge a Bonagiunta Orbicciani per definire la sua nuova maniera di fare poesia. Il nostro autore dichiara apertamente qual è lo scopo della sua fatica: «cantare le meraviglie dell’Onnipotente al fine che gli altri facciano coro, siimi indulgente e seguimi perché soltanto questo è l’intento mio: magnificare Iddio». Dunque la ricerca stilistica, la cura per scrivere versi seguendo le regole in modo ineccepibile, l’invenzione di rime e assonanze, l’unione tra cuore e ragione nell’impegno letterario non comune, tutto è finalizzato a questo “magnificat”.
L’autore, rifacendosi al racconto biblico, ripercorre
le tappe principali della Genesi, della storia del popolo eletto dall’età Abramo (che riceve l’ordine di uccidere il
figlio Isacco) alla cattività in terra egiziana, alla fuga dall’Egitto e
all’arrivo nella terra promessa:
Cu lu passaggiu di lu mari Russo
ci persinu lu chiummu e lu cumpassu
chi Farauni si stuiau lu mussu
chi dda truvau lu veru malupassu.
Si faccia attenzione alle due espressioni
contenute in questa quartina a rima alternata, a stretto giro di versi: prima,
il modo di dire “perdiri lu chiummu e lu cumpassu”, perdere il filo a piombo e
il compasso, metafora di grande effetto che fa riferimento esplicito agli
strumenti di lavoro di un capomastro o un geometra, usata per indicare la gravissima
perdita di elementi decisivi nella vita economica e sociale dell’Antico Egitto
con la partenza del popolo ebraico. La seconda, quella che si riferisce a “stuiarisi
lu mussu”, pulirsi il muso, utilizzata nel linguaggio popolare per indicare la
rinuncia definitiva e irreversibile a qualcosa di cui si stava usufruendo o
godendo. Inoltre il titolo onorifico Faraone, come avviene nei racconti dei
ceti popolari, viene trasformato in nome proprio.
Palazzo passa poi dal Vecchio al Nuovo
Testamento, scandendo la biografia di Cristo e tenendo costantemente presenti le
vicende contrassegnate dalla definizione di misteri dolorosi, gaudiosi,
gloriosi contenuti nella recitazione del Rosario, formula devozionale quanto
mai presente nelle tradizioni religiose popolari. Per fare un esempio:
Subitu vinni Cristu flagillatu
cu tanti vastunati fu battutu
pi sbrigugnallu nudu fu spugghiatu
e iddu si sucava e stava mutu.
In cui è facile notare il ricorso a un topos comune della cultura popolare,
ovvero la stigmatizzazione della nudità come vergogna e alla sottolineatura del
comportamento paradossale di Cristo che anziché lamentarsi piangere e chiedere
la fine delle torture, non proferisce parola ma “si suca”. «Sucarisi – definisce
Antonino Traina nel suo vocabolario licenziato nel 1868 – quel tirare che si fa
col fiato a sé, ristringendosi in se stesso, quando o per colpo o per altro si
sente grave dolore, traducibile in succiare».
La quartina richiama, oltre al dettato evangelico[7], un passo del più recente Il Vangelo secondo Pilato di Schmitt[8]
che narra dal punto di vista del governatore romano quanto avvenne in Palestina
tra l’arresto e la crocifissione di Gesù. In questo volume dalla forma
epistolare, Pilato così commenta l’atteggiamento di Cristo: «Mai quel mago
aveva fatto uno di quei gesti capaci di stimolare la clemenza: non davanti ai
sacerdoti, non davanti a me e neppure al cospetto della folla. La sua rigidità,
il suo rifiuto del patetico, le sue risposte nette l’avevano sospinto irrevocabilmente
verso il trapasso».
Non si tratta quindi, come si vede da questi
esempi, di una semplice traduzione in siciliano dei passi più famosi del Vecchio
e del Nuovo Testamento, ma della abile rielaborazione poetica di una vicenda che
si segue senza perdere una tappa, facendo partecipare il lettore e
richiamandosi alla sua esperienza umana, religiosa e linguistica. L’autore
afferma spesso “comu tutti già sapiti”, “comu si leggi ntra li sagri carti”:
egli è pienamente coscienze del fatto che gli episodi narrati sono stati già
visitati mille volte nelle omelie, al catechismo e nelle sacre rappresentazioni
dei mortori della Settimana santa, come il popolarissimo Riscatto di Adamo in versi di Filippo Orioles[9], ma vuol far
toccare con mano la sua abilità – che non diventa mai virtuosismo fine a se
stesso – nel tradurre queste vicende in fatti ed espressioni radicati nel
sentire popolare.
Concludiamo attribuendo al “poemettu sacru”
di Biagio Palazzo una seconda citazione di Giuseppe Governali: «La presente
raccolta ha il merito di fare memoria e di salvare un patrimonio di cultura
destinato altrimenti all’oblio. Raccogliere e conservare quanto del passato
rimane e lambisce ancora con qualche segno il presente significa, infatti, non
tanto custodire la memoria di un caro
estinto (cosa in sé meritoria), quanto riprendere un colloquio bruscamente
interrotto, nel tentativo di riappropriarsi di passate, sopite speranze ed evitare
che il passato sopravviva come
distruzione del passato»[10].
Dialoghi
Mediterranei,
n. 46, novembre 2020
Note
[1]
G. Governali, Prefazione a Raccolta di
preghiere, a cura di Piera Bivona, inedito.
[2]
È quanto mai strana la coincidenza col fatto che proprio in quella strada sul
finire degli anni 1970, Francesco Carbone, intellettuale poliedrico di grande
levatura, abbia notato presso una abitazione privata ed acquistato un
ciclostile utilizzato in provincia di Palermo per stampare l’“aperiodico” intitolato
«Busambra. Ricerca interculturale», il cui raggio di azione comprendeva anche
Corleone.
[3]
G. Perrino, Nota introduttiva al poemetto
sacro, p. 9.
[4]
Ivi, p. 11.
[5]
Da li tenebri a la luci e da Eva a Maria,
p. 24.
[6]
Purgatorio, XXIV, 52-54.
[7]
Matteo, 26,63; Luca, 23,9. Marco, 14,61.
[8]
É.-E. Schmitt, Il Vangelo secondo Pilato,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2002.[9] Cfr.
Il riscatto d’Adamo nella morte di
Gesù Cristo, edizione critica a cura di S. Bancheri, Marra, Cosenza 1995. L’opera in
versi del 1750 veniva recitata il venerdì santo in molte piazze della Sicilia.
A partire dagli anni ’60 del Novecento ne venivano tratte anche versioni in
prosa, data la difficoltà, per gli attori popolari, di mandare a memoria versi
con un linguaggio aulico del Seicento. Si veda la recensione di S. Di Maria pubblicata in
«MLN», Johns Hopkins University Press, vol. 112, 1 (January 1997), pp. 124-125.
[10] G. Governali, op. cit.
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