di ALESSIO RIBAUDO
A Vienna, nel corso della Conferenza delle Parti, approvato all’unanimità il documento italiano che pone l’eredità lasciata dal magistrato a fondamento della lotta alle mafie. È il primo atto di questo genere che valorizza il contributo di una singola personalità
Un ponte virtuale che collega Palermo a Vienna ma attraversa 190 Paesi di tutto il mondo. Non è una infrastruttura visionaria ma è ciò che oggi in Austria è stato costruito per la lotta alle mafie di tutto il mondo: nel nome di Giovanni Falcone e delle sue straordinarie intuizioni investigative. È stata infatti approvata all’unanimità la risoluzione italiana presentata nella capitale austriaca durante la quattro giorni della Conferenza delle Parti sulla Convenzione Onu contro la criminalità transnazionale. È il sogno che si avvera del giudice siciliano che, già negli anni Ottanta, aveva compreso il rischio che la criminalità organizzata diventasse un problema globale ma non aveva gli strumenti legislativi perché non c’era uno straccio di norma che prevedesse l’impegno corale degli Stati. La risoluzione è nota come la «Convenzione di Palermo», ratificata nel 2000, che fu il primo strumento legislativo universale contro la criminalità organizzata transnazionale. È stato l’unico strumento legalmente vincolante a livello mondiale contro la criminalità organizzata transnazionale. Proprio Falcone aveva intuito — grazie anche al lavoro del vicequestore Boris Giuliano poi ucciso alle spalle dal boss Leoluca Bagarella — che più che le persone bisognava seguire il fiume di denaro «sporco» che generavano e il suo «follow the money» è diventata la pietra miliare di tutte le indagini in tema di malaffare nel mondo. Un «metodo» che neanche tutto il tritolo utilizzato, il 23 maggio del 1992, per ucciderlo a Capaci hanno fermato. Un attentato, voluto dalla mafia stragista del clan dei corleonesi, nel quale morirono anche la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Nel nome di Falcone
Del resto che il giudice Giovanni Falcone fosse
un’icona della lotta alle mafie non solo in Italia ma in tutto il mondo lo
testimoniano due fatti: poco dopo l’attentato di Capaci del 1992 il Senato
americano approvò una risoluzione che definiva la morte di Falcone «una
profonda perdita per l’Italia, per gli Stati Uniti, per il mondo». Del resto il
magistrato siciliano si era messo in luce con inchieste che avevano toccato nel
vivo gli Usa come il processo «Rosario Spatola+119» oppure collaborando con la
grande inchiesta denominata «Pizza Connection» che accertò l’immenso traffico
di cocaina tra gli Stati Uniti e l’Italia e i milioni di dollari depositati. Il
processo che riuscì a inchiodare a 45 anni di carcere il boss Gaetano
Badalamenti fu possibile proprio grazie al «metodo Falcone» sulle inchieste
economiche. C’è di più in Virginia alla Quantico Fbi Academy — la più famosa
scuola al mondo per la formazione di investigatori d’eccellenza — due anni dopo
fu posto nel Giardino della Memoria, adiacente all’ingresso, un busto in bronzo
che raffigura il magistrato palermitano. La colonna su cui sorge è spezzata, a
raccontare un lavoro interrotto, e, a terra, vi è appoggiato uno scudo che sul
quale è scolpita una bilancia, simbolo della Giustizia. Chissà se oggi quel
lavoro invece sarà il «motore» per alzare il velo delle mafie specialmente in
Paesi che sono ancora indietro nel contrasto. Fbi che, nel 2013, ha voluto
ribadire l’importanza del giudice dedicandogli la «Giovanni Falcone Gallery»
nel quartier generale di Washington in cui si sottolinea come la sua
«inesorabile determinazione abbia ispirato milioni di persone con la speranza
che la giustizia e il rispetto della legge possano prevalere un giorno contro
la criminalità e il terrorismo». Tornando a Vienna, la risoluzione è stata
approvata alla fine di una quattro giorni a cui hanno partecipato, in gran
parte da remoto, rappresentanti diplomatici e Ong di 190 Stati che hanno
discusso dello stato della lotta alle mafie nel mondo e di come migliorare e
rendere più efficace la Convenzione di Palermo. La delegazione italiana era
costituita dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’ambasciatore
italiano Alessandro Cortese, dal consigliere giuridico Antonio Balsamo, e dal
primo segretario Luigi Ripamonti. Per l’Italia sono intervenuti anche il
procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho, il procuratore
generale di Roma Giovanni Salvi, il capo della Polizia Franco Gabrielli e il
viceministro agli Esteri Marina Sereni. Al dibattito hanno partecipato anche
Ong italiane, come la Fondazione Giovanni Falcone, il Centro Pio La Torre e
Libera che hanno raccontato le loro esperienze in prima linea sul territorio.
Nella risoluzione si rende un «omaggio speciale a tutti coloro, come il giudice
Giovanni Falcone, il cui lavoro e sacrificio hanno aperto la strada
all’adozione della Convenzione», si sottolinea «che la loro eredità sopravvive
attraverso il nostro impegno globale per la prevenzione e la lotta alla
criminalità organizzata» e si esprime «seria preoccupazione per la penetrazione
di gruppi criminali organizzati nell’economia lecita e, a questo proposito, per
i crescenti rischi legati alle implicazioni socioeconomiche della pandemia del
coronavirus (COVID-19)».
L’unanimità e le novità
Alla fine la risoluzione è stata approvata
all’unanimità e contiene proposte che hanno messo — nero su bianco —
l’importanza dell’eredità lasciata da Giovanni Falcone, pioniere della
cooperazione giudiziaria nel contrasto ai clan, nella lotta alle mafie nel
mondo. Un vero e proprio evento storico perché è la prima volta che in una
risoluzione viene valorizzato il contributo di una singola personalità. Tra i
«suggerimenti» indicati nel documento italiano agli Stati: l’adozione delle
misure patrimoniali — sequestri e confische — che dal 1982 in Italia si
rivelano uno strumento utilissimo nella lotta ai clan, l’uso sociale dei beni
tolti alle mafie, l’invito alla costituzione di corpi investigativi comuni che
facciano uso delle più moderne tecnologie (importanti soprattutto nelle
inchieste sui traffici di migranti), l’estensione della Convenzione di Palermo
a nuove forme di criminalità come il cybercrime e i reati ambientali ancora non
disciplinati da normative universali e il potenziamento della collaborazione
tra gli Stati, le banche e gli internet provider per il contrasto alla
criminalità transnazionale. La Convenzione inoltre, per la prima volta, dà una
definizione di criminalità organizzata applicabile alle mafie di tutto il
mondo, parla di assistenza giudiziaria reciproca e promuove la cooperazione tra
le forze dell’ordine, prevede una serie di impegni per gli Stati firmatari.
«Seguire il denaro»
Nel documento, inoltre, si invitano gli Stati a
condurre indagini economiche, a «seguire il denaro» con strumenti di indagine
finanziaria e a identificare e interrompere qualsiasi legame tra criminalità
organizzata transnazionale, corruzione, riciclaggio e finanziamento del
terrorismo e a utilizzare la Convenzione di Palermo come base giuridica per
un’efficace cooperazione internazionale finalizzata al sequestro, alla confisca
dei guadagni illeciti indipendentemente dalla condanna penale. Il celeberrimo
«Follow the money» nacque anche grazie alle straordinarie qualità investigative
del capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano. Nel 1978, trovò diversi
assegni nelle tasche di Giuseppe Di Cristina: erano tutti del medesimo importo
ed erano intestati a dei prestanome. Poi si scoprì che lo erano di diverse
cosche mafiose. Quindi, l’anno dopo, inizia a indagare su un altro fatto «singolare»:
nello scalo palermitano di Punta Raisi viene dimenticata sul nastro dei bagagli
una valigia con oltre mezzo milione di dollari. Qualcosa inizia a non quadrare
e iniziò a indagare sulla famiglia dei corleonesi che sino ad allora erano
considerati «viddani», cioè gente di campagna. Nulla a che vedere con i modi
più «felpati» di Stefano Bontade, «l principe di Villagrazia». Il messinese
Giuliano era uno «sbirro da strada» fiutava prima di chiunque i criminali e i
loro sporchi affari ed era anche «moderno» perché capiva che bisognava
specializzarsi. Non a caso aveva frequentato un master dell’Fbi. Per Riina
stava diventando un vero ostacolo e, nel 1979, gli fece sparare alle spalle
mentre pagava un caffè al bar. Per freddarlo diede l’incarico direttamente a
suo il cognato Leoluca Bagarella, un killer spietato. Palermo ben presto
divenne un campo da battaglia per i corleonesi che fecero piazza pulita non
solo della «vecchia mafia» del capoluogo siciliano ma di chiunque potesse
intralciare la loro ascesa. Poco importava se fossero poliziotti, carabinieri,
prefetti, magistrati o giornalisti come Mario Francese. Falcone capisce che gli
assegni o la valigia su cui indagò Guliano non erano casi isolati ma che
proprio dai soldi bisognava partire per inchiodarli. Nel 1980, istruì il
procedimento penale contro Rosario Spatola, sino ad allora un danaroso
costruttore con oltre 400 dipendenti, accusandolo di essere al centro di un
grosso traffico di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove cinque
«famiglie» avevano il monopolio di armi e droga. Nacque in quegli anni la
grande collaborazione con la magistratura statunitense, la Dea e l’Fbi e, ora
dopo ora, Falcone capì la potenza economica della mafia che aveva superato i
confini della Sicilia e dell’Italia. Capì che indagare solo a Palermo era molto
limitante perché bisognava colpire i capitali riciclati, ripuliti e detenuti
nei «forzieri» di banche di tutto il mondo. Il giudice siciliano spesso diceva
che se il traffico di droga non lascia quasi tracce, il denaro ottenuto non può
non lasciare dietro di sé delle tracce fra chi fornisce gli stupefacenti e chi
li acquista. Nacque così il «metodo Falcone» con accurate e mirate indagini
bancarie che partono dalla Sicilia e si triangolano con Stati Uniti, Canada e
istituti di credito che, a quei tempi, disponevano del segreto bancario
considerato inviolabile.
Il «pool» e l’eredità
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano certamente
le punte di diamante del «pool antimafia» fortemente voluto da un altro grande
magistrato siciliano: Nino Caponnetto. Un’intuizione — la sua — tanto semplice
quanto geniale: un nucleo di magistrati che non si occupavano più di singoli
procedimenti ma che condividevano tutte le informazioni perché se la mafia si
muoveva sul territorio con un progetto unitario e verticistico, la risposta
dello Stato non poteva essere parcellizzata. Da questa scambio incessante di
informazioni nacque un capolavoro giudiziario assoluto come il maxiprocesso di
Palermo che portò alla condanna di 346 persone.«L’idea di cooperazione nasce
proprio da quel “pool” — spiega Giuseppe Antoci, presidente onorario della
Fondazione Caponnetto ed ex presidente del Parco dei Nebrodi, scampato ad un
attentato mafioso nel maggio 2016 — se funzionava a Palermo, poteva essere
replicato su vasta scala mondiale. Era proprio il sogno di Giovanni Falcone
quello di investire sulla cooperazione internazionale per la lotta alle mafie.
Era anzi uno dei punti essenziali, secondo il giudice, che avrebbe consentito
di attuare tutti gli accorgimenti necessari per un’operazione a più ampio
raggio contro le mafie nel mondo. Adesso avanti con la cooperazione
internazionale sulla lotta alle mafie che può rappresentare quel salto di
qualità per consentirci di affrontare il tema come problema globale, così come
di fatto sono ormai diventate le mafie».
Le reazioni
«Giovanni Falcone credeva fermamente nella necessità
di creare un fronte comune, una mobilitazione mondiale contro le mafie», spiega
la sorella Maria che presiede la Fondazione intitolata al magistrato. «Al
centro della sua visione c’è sempre stata la necessità di investire sulla
cooperazione internazionale nel contrasto al crimine organizzato — aggiunge — .
Nella risoluzione approvata a Vienna, frutto del prezioso lavoro del nostro
Paese, sono recepite molte delle sue idee: dalla necessità di colpire i patrimoni
illegali e di seguire i flussi di denaro, al potenziamento della cooperazione
giudiziaria internazionale, alla costituzione di pool investigativi comuni a
più Stati che potrebbero essere decisivi nella lotta alle organizzazioni
transnazionali di trafficanti di uomini. Quello raggiunto alla Conferenza delle
Parti è un traguardo di cui essere orgogliosi». Grande soddisfazione l’ha
espressa anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: «Quale capo della
delegazione italiana l’approvazione della risoluzione non può che essere per me
motivo di grande orgoglio». «La lungimirante visione di Falcone — ha concluso
il ministro — ha gettato le basi per questo straordinario risultato: oggi 190
Paesi del mondo hanno unito le forze e combattono insieme, in modo sempre più
efficace, le mafie». Perché per combattere le mafie — per dirla come un altro
grande magistrato come Gian Carlo Caselli — non basta arrestare la struttura
«militare» ma anche le cosiddette «relazioni esterne»: i pezzi collusi di
politica, economia e Istituzioni. Combattere davvero la mafia significa
intervenire sull’uno e sull’altro versante anche perché le «relazioni esterne»
sono la vera spina dorsale e, contemporaneamente, la corazza protettiva
dell’organizzazione criminale.
Corriere.it, 17 ottobre 2020 (modifica il 18 ottobre
2020)
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