di Sara Scarafia
Dai pionieri che nel 1980 hanno fondato a Palermo il primo circolo Arcigay d’Italia, alle unioni civili di adesso: come è cambiato il mondo gay e lgbti+. “Il matrimonio è stato uno spartiacque, ma il cammino è ancora lungo”
Massimo in un frac bianco con una lunga coda e Gino in un completo rosso, un bouquet di fiori freschi a testa. Quel 28 giugno in piazza c’erano gli edili che protestavano contro il Comune e camminando in quel cimitero che erano le strade di Palermo pareva ancora di sentire l’eco delle bombe che pochi mesi prima avevano ucciso i giudici Falcone e Borsellino. Massimo Milani e Gino Campanella — i pionieri che nel 1980 hanno fondato a Palermo il primo circolo Arcigay d’Italia — salirono la scalinata della chiesa di Santa Caterina e si sposarono simbolicamente affacciandosi su piazza Pretoria.
A celebrare Ernesta Morabito, consigliera comunale Pds; testimoni Pietro
Folena e Giovanni Ferro. Ventisette anni dopo Gino e Massimo si uniscono
civilmente domani a Giarre, nel giorno del quarantesimo anniversario
dell’omicidio dei pastori Giorgio e Antonio, uccisi perché si amavano.
Com’è cambiata la vita degli omosessuali di Palermo 27 anni dopo? Bisogna
chiederlo a Lucia e Valentina — Lucia Lauro, assistente sociale e Valentina
Volo, insegnante di Lettere — che due anni fa, dopo il sì nel 2016 alla legge
sulle unioni civili, si sono potute “sposare” festeggiando con amici e
famiglia. Bisogna chiederlo a Giuseppe e Ivano — Giuseppe Cutino, attore e
regista, e Ivano Iaia, architetto — che il primo aprile del 2018 sono diventati
padri di Bianca. Bisogna chiederlo ad Angela, 22 anni, studentessa, che a
sedici anni ha dovuto cambiare scuola per bullismo e che oggi partecipa alle
manifestazioni Lgbt sfuggendo a telecamere e fotografi perché alla mamma non ha
ancora detto di essere gay. Lucia e Valentina, Giuseppe e Ivano, ma anche
Angela, che nel 1993 non era ancora nata, e oggi dice che quanto farà coming
out «penserà anche a loro»: «Dobbiamo tutto a Massimo e Gino». Massimo che
attraversa il centro pedalando con i tacchi a spillo e che con Gino da
trent’anni ogni mattina apre la bottega di accessori in cuoio nel cuore di
Ballarò.
In the name of love
«Quel giorno in piazza Pretoria c’erano almeno duecento attivisti,
giornalisti e telecamere. Ma c’erano anche i disoccupati che manifestavano e i
curiosi. Quando lanciammo il bouquet tutti applaudirono ma la reazione generale
della città era di scherno o di distanza» raccontano Massimo e Gino salendo di
nuovo quei gradini.
Erano da poco passati gli anni delle notti in piazza Pretoria: «Intellettuali, studenti, omosessuali, prostituite, sballati, artisti: nel
centro storico a luci spente, ci ritrovavamo qui con le macchine che passavano
urlandoci di tutto» . Quegli anni vivi, «in questa piazza nascevano le idee»
, erano stati spazzati via dall’Aids. Nel 1993 Massimo e Gino — uno romano,
l’altro torinese di origini siciliane — avevano già scelto Palermo da anni: nel
1980 avevano fondato in città il primo circolo Arcigay d’Italia. Ma celebrare
quel matrimonio in pieno giorno fu uno spartiacque.
«Erano gli anni dell’Aids, gli omosessuali venivano considerati quelli del
sesso perverso. Ma nella città dei morti ammazzati sentimmo l’esigenza di
gridare la nostra voglia di libertà». Cosa è cambiato da allora? «Quasi tutto
ma non ancora abbastanza» . Massimo e Gino avrebbero potuto unirsi civilmente
già dal 2016, l’anno della legge Cirinnà, ma finora hanno detto di no a quello
che considerano un «surrogato del matrimonio egualitario».
«In questa rinuncia io ci vedo il loro atto politico più forte —
dice Luigi Carollo, portavoce del Pride — Oggi la scelta di Massimo e Gino
è una scelta umana. Dobbiamo tutto a loro» . Carollo quel 28 giugno, da
giovanissimo attivista Arcigay, fu scelto per presentare la cerimonia « perché
mio dissero “ tanto tua madre lo sa che sei gay”». Per quasi tutti ancora era
un tabù. «In quella piazza c’era un pezzo della nascente primavera di Palermo
— racconta Titti De Simone, ex presidentessa di Arcilesbica ed ex deputata di
Rifondazione — noi ragazzi omosessuali mettevamo per la prima volta in piazza i
nostri corpi per reazione a quegli altri corpi, quelli dei morti ammazzati. In
quella piazza si è saldato il patto tra i movimenti: quello Lgbt, quello
antimafia, quello femminista».
Chiamami col tuo nome
«La legge Cirinnà è un primo passo che ci ha permesso di indossare queste»,
dicono Lucia e Valentina mostrando le fedi. Quarantenni, nel 1993, quando Gino
e Massimo si sposarono per provocazione, da adolescenti stavano scoprendo la
loro omosessualità.
Ci sono voluti anni perché trovassero un equilibrio. Lucia dopo un coming
out doloroso che ha sfidato i pregiudizi della sua famiglia cattolica;
Valentina con una mamma che ha fatto coming out al posto suo, scrivendole una
lunga mail. «Mi disse “ io lo so, perché non ne parliamo?”» . Lucia e
Valentina, oggi che si amano a viso aperto, aspettano che la possibilità del
matrimonio, quello vero, arrivi anche per loro.
È soprattutto una questione di nome, o meglio di cognome. E lo è ancora di
più nel caso delle famiglie arcobaleno, quelle che hanno deciso di avere un
figlio e che in Sicilia sono una trentina. Giuseppe Cutino e Ivano Iaia, sono i
padri di Bianca, nata in California grazie alla gestazione per altri: una donna
alla quale viene impiantato un ovulo di un’altra donna fecondato in questo caso
da uno dei padri.
«Noi siamo riusciti ad avere, anche grazie all’amministrazione comunale,
tutti i documenti di Bianca, carta di identità e passaporto. Ma in Italia
la step-child adoption non esiste e il cammino per riconoscere
l’altro padre o l’altra madre come genitore è ancora tutto in salita».
A Palermo, raccontano le coppie, vivere come famiglia è più facile che
altrove. «Questa è una città abituata alle differenze — dice Cutino — e per
questo dobbiamo dire grazie a Massimo e Gino».
Dal 2016 a Palermo più di 200 coppie a Palermo si sono unite civilmente.
Leoluca Orlando quel 28 giugno del 1993 non era ancora sindaco: sarebbe stato
eletto a novembre. «Sennò quel matrimonio lo avrei celebrato io». Eterno
sindaco di Palermo e politico cattolico, sostiene che la svolta nel segno dei
diritti per la città è arrivata «quando la mafia non ha più governato» : «Nel
1993 ci trinceravamo dietro la difesa del diritto, della legge, della pena.
Solo dopo scoprimmo che a volte il diritto contrasta con i diritti. Quel 28
giugno ha segnato un’inizio».
Dove finisce la notte
La strada, dicono Massimo e Gino, è ancora lunga. E nelle mani nervose di
Angela che racconta la sua storia con un nome inventato, c’è tutta la distanza
ancora da percorrere. Un coming out, il suo, figlia di separati, a metà. Col
papà che sa e la supporta e una mamma con la quale invece non ha mai parlato. «
Mia madre usa termini come “ frocio”, “ ricchione”, “ finocchio”. Mi compra i
vestitini anche se io indosso solo camicie. Quel lato della famiglia mi chiede
ancora dello “zito”».
Angela ha scoperto la sua omosessualità a 16 anni. «Ho dovuto cambiare
scuola per trovare un’insegnante con la quale aprirmi, compagni che mi
accettassero per quella che ero » . La scuola è avanti. Ne è certo don Ninni
Zito, al quale l’arcivescovo Corrado Lorefice ha chiesto di promuovere la “
pastorale Lgbt”, introducendo il tema tra le famiglie e i giovani.
Una scelta che si rinnova dopo l’ultima recentissima apertura del Papa sul
diritto degli omosessuali a essere famiglia. « Ma purtroppo nella Chiesa — dice
padre Zito — contano solo gli atti e di scritto su questo tema non c’è niente.
Nelle parrocchie ci sono ancora resistenze, pregiudizi. A scuola invece impari
dalla naturalezza dei ragazzi: ho insegnato Religione per 20 anni al Cannizzaro
dove non era un tabù salire le scale tenendosi per mano».
Anche Massimo e Gino, salendo di nuovo le scale di Santa Caterina, si tengono per mano. Poi arrivano in cima. « Ci dichiariamo marito e marito » . Di nuovo. E sempre solo per amore.
La Repubblica Palermo, 30 ottobre 2020
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