di CLAUDIO REALE
Il segretario della Camera del lavoro si dimette: “ Ho 66 anni, coltiverò la mia vigna e ho cento libri da leggere” L’infanzia da capofamiglia, gli incontri con Danilo Dolci, le battaglie al fianco degli edili. Anche contro i mafiosi
La storia che oggi giunge all’epilogo inizia con un buffetto del senatore Giuseppe Avellone: « Mio zio era un galoppino dc e mi portò da lui. “ Mischino — gli disse — suo padre è emigrato in Germania”. Non mi piacque essere compatito e non mi piacque ricevere la promessa di Avellone: “ Di te mi occupo io”. Allora capii cosa volevo fare: quello era il potere, e io volevo combatterlo, fare politica » . Quella traiettoria, la traiettoria di Enzo Campo, arriva al suo apice oggi: il segretario della Cgil di Palermo, 66 anni, rassegna le dimissioni, per l’avvio delle consultazioni online che porteranno alla scelta del suo successore. «A lui — dice Campo — lascio una Cgil che si apre alle nuove identità di lavoro, ai rider, al presente e al futuro».
E dire che questa storia affonda salde le radici nel passato. In una
Sicilia d’altri tempi, che cerca l’emancipazione attraverso il lavoro: i Campo,
a Partinico, erano infatti una famiglia di muratori, e quando il padre decise
di cercare fortuna a Düsseldorf, alla stazione di Palermo lo seguirono la
moglie e i tre figli: Enzo, Elena e Filina. «Avevo sei anni — racconta il
segretario della Cgil — e per la prima volta assaggiai il pane di Palermo nel
cestino che la Croce rossa dava agli emigranti. Mio padre me lo regalò e, mentre
mia madre piangeva, mi disse: “ Sei il maschio di casa, ti affido la
famiglia”».
Quella volta partì soltanto il padre, ma sarebbe durata per poco: dopo un
tentativo di stabilirsi tutti in Toscana che si infranse contro la diffidenza
nei confronti dei meridionali, anche la madre partì, e a quel punto Campo
diventò letteralmente il capofamiglia. « Andavamo in collegio — ricorda —
quando mio padre tornò, dopo il terremoto del Belice, il direttore lo convinse:
“ Se partisse — gli disse — non avrebbe un futuro”. Mio padre tornò in Germania
solo con le mie sorelle. Ero il figlio che studiava».
Già, perché questa è una storia di emancipazione, di rottura della
cristallizzazione sociale. Lo raccontano, involontariamente, anche gli esempi
che fa Campo: per l’esperienza toscana chiama in causa “ Novecento” di Bernardo
Bertolucci, per la Sicilia rurale Pietro Germi, per un incidente sul lavoro “
Metello” di Vasco Pratolini, persino la narrazione del sé universitario rimanda
ad Antonio Gramsci e all’intellettuale organico. « Io — rivendica il
sindacalista — dovevo emancipare me per emancipare la famiglia».
Così, a Partinico, iniziano gli incontri con una Sicilia in evoluzione:
Danilo Dolci e la radio dei poveri cristi, poi tramite questi Peppino Impastato
e la sinistra extraparlamentare. « Ero attratto dal Pdup e persino affascinato
dalle Brigate rosse — ammette — ma poi, proprio al funerale di Impastato, mi
colpì un fatto. Fu impedito a Franco Padrut, che allora guidava la Fiom, il
sindacato più di sinistra, di parlare. Discutevamo sempre della critica al Pci,
ma lo criticavamo da fuori. Pensai che per cambiare qualcosa bisogna starci
dentro».
Dentro il Pci, dunque, e soprattutto dentro la Cgil. « Mi proposero di
guidare la Camera del lavoro di Partinico — spiega — e per convincermi mi
dissero che sarei stato la terza carica del paese: “ Prima viene l’arciprete,
poi il sindaco, poi il segretario della Cgil”. Accettai » . Da lì Campo passò
alla Fillea, la categoria degli edili della quale all’inizio del nuovo
millennio è stato anche segretario regionale e poi componente della segreteria
nazionale: nel nome del padre, in fondo, a rappresentare i diritti dei
lavoratori come lui. Fra le difficoltà: «Un giorno di fine anni Ottanta
ero a Borgetto in un cantiere. Lì conoscevo tutti. Arrivò una Mercedes nera e
scesero in due: un signore accompagnato da un energumeno con i Ray- Ban neri.
All’improvviso intorno a me si creò il vuoto: “Questo non è campo suo”, mi
disse. Era il boss: “Ha una bella macchina — soffiò — se la goda”. Mi raggelò
il sangue » . Eppure quel corpo a corpo con una mafia nel pieno delle sue forze
si scontrava con gli incidenti di percorso: «Tornai in città e lessi il
giornale. Titolava “ Palermo porto delle nebbie”. C’era stato il corteo con le
bare che fu letto come un’intimidazione. Noi, però, le intimidazioni le
subivamo».
Intimidazioni o peggio, come a Portella della Ginestra: «Quando ero piccolo
— sorride Campo — sognavo di parlare lì da segretario della Cgil. L’ho fatto, e
una volta l’ho anche fatto con un punto di riferimento come Emanuele Macaluso.
Mi chiedono cosa farò dopo: non voglio altro, solo coltivare la vigna e leggere
un po’ » . Già, l’intellettuale organico: « Ci sono cento libri che mi
aspettano » . Perché l’emancipazione è una strada senza fine. Ed è una strada
intrinsecamente politica.
La Repubblica Palermo, 23 ottobre 2020
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