Giorgio Chinnici |
di Umberto Santino
Addio al criminologo autore di importanti saggi su Cosa nostra
Giorgio Chinnici è stato ricordato come presidente del Consiglio comunale, in una fase storica che va sotto il nome di “primavera di Palermo”, ma desidero ricordarlo come studioso che ci lascia un patrimonio prezioso e destinato a durare. Suoi sono gli studi pubblicati nei volumi “La violenza programmata” e “Gabbie vuote”, frutto di ricerche condotte all’interno del Centro Impastato.
Il primo libro, di cui sono coautore, si può considerare l’unica
ricostruzione con criteri scientifici degli omicidi a Palermo negli anni
Sessanta e Ottanta, con al centro le guerre di mafia più sanguinose nella
storia della mafia. Nel saggio che apre il libro, Chinnici si pone
preliminarmente il problema di andare oltre gli stereotipi della mafiologia
corrente, che vuole la mafia fabbrica di omicidi frutto di un’arcaica ferocia,
e di elaborare una metodologia adeguata per capire che ruolo ha la violenza
nell’agire mafioso. Di concerto abbiamo pensato che siamo di fronte a una
«violenza programmata» e a un «omicidio progetto», cioè alla elaborazione e
alla pratica di una strategia mirata, che coniuga la gara per il comando
all’interno dell’organizzazione criminale e la conflittualità per
l’acquisizione di un ruolo egemonico nel contesto sociale. Questa metodologia
non può non essere composita e così il concetto di «matrice», inteso come
«processo di causazione e consumazione del delitto», è una configurazione in
cui si incrociano aspetti diversi ma convergenti: la situazione conflittuale,
le modalità del delitto, le caratteristiche sociali, economiche e di ruolo
delle vittime e degli autori, i moventi. Il teatro territoriale a cui
guardavamo era quello di Palermo e provincia che in quegli anni aveva
registrato un tasso di omicidi tra i più alti a livello mondiale. Scrivevamo
nella quarta di copertina: «Il concentrarsi degli omicidi mafiosi ha un
carattere di unicità: non per caso nel capoluogo siciliano sono stati uccisi un
presidente di Regione, il segretario regionale del maggior partito di
opposizione, un prestigioso rappresentante delle istituzioni nazionali come il
generale-prefetto Dalla Chiesa, rappresentanti delle forze dell’ordine e della
magistratura», per limitarci ai soggetti istituzionali. Una sorta di colpo di
Stato. Lo studio della violenza era la cartina di tornasole per decrittare la
storia della mafia in un periodo segnato da profonde trasformazioni. Una mafia
che muoveva alla conquista della città, stravolgendone l’assetto urbanistico,
sperimentava forme di accumulazione che la proiettavano a livello
internazionale, con i traffici di sigarette e di droga. E poneva la sua ipoteca
sulla politica e sul potere. Tommaso Buscetta ne aveva rivelato il nome, non
mafia ma Cosa nostra, ricostruito la struttura organizzativa e ne aveva
diagnosticato il mutamento: la Cosa nostra di cui aveva fatto parte
avrebbe avuto il compito di «proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie».
Qualcosa come i Beati Paoli del Ventesimo secolo. Ora era diventata una
congerie di trafficanti interessati soltanto a sgomitare per ammucchiare
denaro. In realtà Buscetta si era trovato dalla parte dei perdenti e la sua
scelta di collaborare con la giustizia era la reazione a una violenza a cui non
erano in grado, né lui né Bontate né Badalamenti, di rispondere con le stesse
armi. Comunque il suo contributo era stato decisivo e il maxiprocesso ne aveva
sancito la sacralizzazione. Il libro è del 1989 ed è da tempo esaurito, ma
recentemente è stato uno dei riferimenti principali per una ricerca sulla
violenza camorristica, pubblicata nel 2019 nel volume collettaneo “Mafia
Violence”, edito da Routledge.
Del maxiprocesso, e più in generale dei processi per omicidio, parlavamo
nell’altra ricerca coordinata da Chinnici e da me. Il titolo, “Gabbie vuote”,
fotografava una realtà: nel 1986, quando cominciava il maxiprocesso, i detenuti
erano 335, nel 1991 erano 20, anche se successivamente boss e gregari
ritorneranno in carcere. Alla presentazione del libro, il 21 febbraio del 1992,
tra i relatori c’era Giovanni Falcone e uno dei temi su cui insistette era che
i magistrati, almeno alcuni di essi, avevano fatto fino in fondo la loro parte,
mentre le altre istituzioni erano state a guardare o si erano tirate indietro.
Di tutto questo riparliamo nel volume “La memoria e il progetto. Dal Centro
Impastato al No mafia Memorial”, a giorni in libreria. È il nostro modo di
ricordare Giorgio Chinnici.
La Repubblica Palermo, 23 ottobre 2020
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