Gino e Massimo |
MARIA DI CARLO
Quando arrivai da Corleone a Palermo, nel ’79, diciotto anni freschi, dopo una fragorosa rottura con la mia famiglia ed un processo che all’epoca fece scalpore, fra le prime persone che conobbi ci furono i pochi che frequentavano il Partito Radicale, nella sede di vicolo Castelnuovo. Specificamente, frequentavo le riunioni del Fuori! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano), un gruppetto sparuto e variegato di persone che non necessariamente erano omosessuali ma che sentivano di aderire alle istanze di quanti lottavano per l’affermazione di certi diritti. Non si lotta solo per difendere i propri, ma quelli in generale di una società più libertaria, più umana, più solidale, più giusta. C’erano Giuseppe, Piero, Salvatore, Pippo, Franco, Calimero, e un serissimo e mutissimo portalettere, chiamato col suo cognome: Formica. E anche Anna Maria e Rosangela (che per età avrebbero potuto essere mia madre e mia nonna!). E Regina, che più che una trans era un omone coi capelli lunghi, alto e massiccio, con un vestito alla Jessica Rabbit e la barba di giorni, i peli mal rasati sul petto ed il vocione, un altro pianeta rispetto alle trans ormonizzate e siliconizzate e laserdepilate di ora. Giuseppe aveva già al suo attivo una storia clamorosa anch’essa, un bacio con un uomo, alla stazione, gli era costato la denuncia dell’allora famoso pretore Salmeri. Alcuni erano già o sarebbero divenuti fra i primi “lottatori liberi” per la causa dei diritti degli omosessuali. Allora non si parlava ancora di lesbismo, o non tanto, e non si usava il termine lgbt, cui ora si aggiungono anche una “q”, una “i” e, a che ci siamo, pure un “+”.
Questo
piccolo drappello, solo a vederlo, rappresentava plasticamente la possibilità
di comprendersi e rispettarsi pur nella diversità di sesso, genere, tendenze,
gusti ed età. Insomma, che un altro mondo era possibile.
Da là a poco, anche il magico innesto col Teatro autonomo di Roma, avvenuto anch’esso in un vicolo distante poco più di 100 metri dal primo: vicolo Ragusi. Da là l’incontro, determinante, con Silvio ma soprattutto con Massimo (Verdastro), a cui tanto dobbiamo ancora ora. Nell’asse di Corso Vittorio Emanuele, nel tratto fra Quattro Canti e cattedrale, quanti mondi nuovi si schiudevano ai nostri sensi attenti a captarli? Sedi povere entrambe. Quella del Partito Radicale certo non somigliava alle sedi“ ‘mpustate” dei partiti allora esistenti (che, per altro, certi temi si guardavano bene dal trattare). E il Teatro del Vicolo si teneva appunto in un vicolo, in ambienti semi abbandonati che del teatro non avevano sembianza.
In entrambi i luoghi si metteva in ballo la propria vita: coi propri limiti, le proprie paure, ma anche la propria presenza, la propria voglia di affermare il diritto all’esistenza, “gridato” anche senza voce, come quella che mai udimmo di quel postino bocca cucita dal cognome di insetto.
E’
in quegli anni che, dall’incontro con Teatro del Vicolo, nasce il nostro Teatro
Madre. Anche là, un teatro di autori-attori-interpreti di se stessi. I testi,
quasi interamente scritti da Nino, prima di essere testi raccontavano la nostra
stessa vita. Erano la nostra presa di distanze dal mondo dei padri in senso
lato, da cui ci eravamo staccati e da cui eravamo stati espulsi con
determinazione e vicendevole ferocia. E, al contempo, erano il riconoscimento
della sua importanza, dell’impossibilità di prescindere da questi affetti,
amati-odiati ma comunque radicati dentro di noi. Era un teatro povero come noi
eravamo, torce a pile illuminavano la scena, da un registratorino gracchiante
tutt’altro che stereo uscivano le musiche, da me scelte. Lo facevamo nelle
case. Si adunavano gli amici della casa ospitante, ci si raccoglieva a lume di
candela ed entravamo “in scena” noi, i nostri pezzi di vita. Un amico
corleonese, un giorno presente ad una di queste rappresentazioni, ci disse che,
a non conoscerci, tutto gli sarebbe sembrato bello e carico di emozioni ma,
conoscendoci, tutto gli sembrava invece terribilmente tragico. Tutto bello, se
non fosse stato tutto vero.Giorgio e Antonio. i due ragazzi di Giarre...
A Giarre, nello stesso periodo, due ragazzi, Giorgio e Antonio, erano stati uccisi? si erano fatti uccidere? con le dita delle mani intrecciate. Si dice avessero lasciato una lettera in cui raccontavano dell’impossibilità di vivere apertamente il loro rapporto. Che fossero stati uccisi o si fossero uccisi, che la lettera esistesse o meno, in ogni caso la loro morte, le loro dita intrecciate, parlavano chiaro del malloppo di repressione che gravava sulle loro vite ma non solo.
Come
Teatro Madre pensammo subito di andare a Giarre, di stare dalla parte di
Giorgio e Antonio in qualche modo. Muniti di un pulmino a più posti prestatoci
da amici, arrivammo in paese dove, all’epoca, si erano fiondati giornalisti e
tv, e gli abitanti credo (quasi) in massa non gradivano di essere assurti agli
onori della cronaca per questa “storia di froci”.
Appena
arrivati, la tensione si tagliava a fette. Fummo attorniati da ragazzi che, con
fare provocatorio, il minimo che ci dicevano era “Ma tu si’ masculu o
fimmina?!?”, ”Mi l’ha’ ffari tuccari?!?”. Io volevo fuggire. Nino fu invece
bravissimo a bene-dirsi, a saper parlare smorzando l’impatto iniziale, a pro-vocarli
nel senso del richiamarli, serio e maieuta, a ragionare su certi temi e poi,
durante lo “spettacolo”, a uscire dal testo, a coinvolgerli. La stanza,
gremita, in cui si tenne la performance era forse una biblioteca, ora non
ricordo. Io ero seduta in platea, e accanto a me i ragazzi che ci avevano fatto
quella “accoglienza” al nostro arrivo, ora ammansiti. Non sembrerà vero ma lo
è: quando andammo via ci accompagnarono al pulmino con la promessa che ci
saremmo ri-incontrati.
Quarant’anni
dopo, e per l’anniversario della tragica morte di Giorgio e Antonio, eccoci di
nuovo a Giarre, dove Gino e Massimo non a caso hanno scelto di ri-sposarsi.
Questa volta anche legalmente, dopo averlo fatto profeticamente già trent’anni
fa. In quell’occasione Nino, sempre ideatore di frasi a effetto, indossava una
maglietta con su scritto “Gino e Massimo: né maschi né froci, solo uomini”
(oggi si direbbe, meglio, “persone”).
In
tempo di covid, i presenti potranno essere 30 soltanto e sono felice di essere
fra loro, e questa volta con in più mio figlio accanto. Come accoglieranno
l’evento gli abitanti di Giarre? Intanto con le parole che il sindaco ha
scritto ai “nuovi” sposi: “… vi sento come persone molto care, la vostra unione
è motivo di orgoglio e di riscatto civile per la mia comunità cittadina, ma non
solo… Sarò onorato di incontrarvi… Finora non ho fatto altro che il mio dovere,
avendo sempre creduto nella positività dell’essere umano e nella sua capacità
di vincere ogni forma di violenza e di discriminazione…”. Queste parole non
possono che rincuorarci tutti (e far piangere, al solito, Massimo). Ma mettiamo
ancora nel conto che ci saranno, come sempre e ovunque e in ogni tempo, i
violenti, gli assassini, o gli ”schifiati” e, accanto a loro, gli incuriositi,
e i “tolleranti”, e magari anche un numero maggiore di approvanti, e via per
gradi… Tante cose sono cambiate e in meglio, e siamo qua per questo! Ma anche
per ricordare al paese ed al Paese la vicenda di Giorgio e Antonio, a tanti
sconosciuta, da tanti volutamente “dimenticata”. Non sarebbe bello, in nome
loro, piantare due alberi che possano crescere l’uno accanto all’altro?
Conosco
Gino e Massimo da decenni, da quando Gino era più giovane di ora, come tutti,
ma comunque già da allora esteriormente “quello”, quello che anche gli abitanti
del quartiere popolare in cui lavorano definiscono “signor Gino”. Era stato
sposato per convenzione sociale, come spesso si usava e credo purtroppo si usi
ancora, con due figli, e aveva a un certo punto rivelato la sua omosessualità
alla moglie, separandosene.
Massimo,
al contrario di ora, era un ragazzo con barba e pantaloni. In Teatro Madre, in
cui ognuno metteva in scena se stesso, Nino gli aveva affibbiato la parte di un
uomo nudo, legato con una corda come un salame, che a un certo punto si
divincolava dai suoi legacci, manifestandosi com’era. Attraverso graduali
trasformazioni, nei decenni, in questa fase della sua vita ha il seno, la sua
voce di sempre e si veste… non “da donna” (perchè le
donne non si vestono così!), si veste… da Massimo. Per ora è così, poi… chissà.
Non finisce di stupirmi il fatto che, pur con questa rappresentazione di sé
così fuori dall’ordinario, la gente del quartiere, adulti e bambini (spesso i
più scatenati contro chi fuoriesce dai certi canoni), non finisce mai di
stupirmi il fatto che tutti lo chiamino per nome, con garbo, direi anche con
affetto, con sicura simpatia. E in questo sta anche la sua e la loro capacità:
nell’essersi fatti rispettare da tutti, per la loro combattività ma anche per
il loro pacato modo di esistere.
Dei
vari documentari su di loro, un flash: Gino al Foro italico, mentre conversa
serenamente con uno dei due figli, quello che ha accettato la relazione fra lui
(suo padre!) e Massimo. Dell’altro, che ha difficoltà a farlo, Gino parla con
comprensione, senza ombra di contrarietà o di amarezza.
Ma
quello che mi è restato più impresso è quanto, in un altro documentario, ha
detto Gino, e che io sono solita ripetermi e ripetere. Raccontava che, se
avesse conosciuto Massimo così com’è ora, non ne sarebbe stato attratto. Ma che
se Massimo ha voluto diventare com’è, lui “semplicemente” lo rispetta e basta.
Mi sono detta tante volte che io, anche su questioni di carattere diverso, non
saprei avere la stessa apertura, o dovrei conquistarla con sforzo. Mentre Gino,
con la sua aria da signor Gino che più normale non si può, diceva questa cosa
senza apparente (e credo anche sostanziale!) difficoltà.
Ho
avuto la ventura ed il piacere, con Nino, di essere presente, decenni fa, alle
riunioni per la creazione del primo Arcigay, con Marco, Franco e gli altri
(tutti di sesso maschile) e, ovviamente, sempre Gino e Massimo,
onniprotagonisti di ogni lotta e iniziativa in ambito lgbtqi+…
Li
conosciamo bene per il loro esserci sempre, per la creatività densa di
significato con cui aprono ogni volta i nostri Pride; per aver, assieme ad
altri, inventato il Pride a Palermo. Li conosciamo tutti nella loro veste
pubblica e combattiva.
A
me piace raccontarli anche per flash privati: Gino e Massimo al funerale di
Nino come al matrimonio di me con l’altro Nino; o con nostro figlio Giuliano,
neonato, in braccio a Massimo, inteso anche Massimona e, per l’occasione, zia
Simona; o a cena a casa nostra col figlio di Gino e la sua giovane moglie,
durante il loro viaggio di nozze; o durante la contrastata scelta di foto e
testi per le giornate al Teatro Biondo, dedicate a Nino a vent’anni dalla sua
morte; o ad ideare il premio a lui intestato; o da sempre, anche quando sono stati
poverissimi, col loro negozietto di cuoio come anche la loro casa, luoghi
dell’accoglienza a tutto campo. Un rifugio anche per quanti (talvolta anche
pesaaanti) hanno trovato non saltuariamente ma abitualmente un piatto di pasta
da condividere, e compagnia, parole, ascolto, attenzione, presenza, famiglia.
Il mio non è un racconto più particolare di tanti altri. Ognuno potrebbe, a suo modo, fare il suo, e cucire, accanto agli altri, il proprio pezzetto. Facciamolo. Di solito si raccontano frammenti belli di qualcuno in occasione di celebrazioni funeree. Noi facciamolo invece oggi che sono entrambi felici e ancora insieme, qua con noi.
A Giorgio & Antonio, a Gino & Massimo, e ai tanti come loro.
da Maria
29 ottobre 2020
1 commento:
Grazie, Maria, per queste righe intense e incisive, come nel tuo stile. Anch'io sono tra quelli che, pur avendo l'età, non ho la memoria di Giorgio & Antonio: grazie di avermela regalata.
Condivido con piacere su FB (dove mi pare tu non sia presente) il tuo bel racconto.
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