Con questo intervento di Roberto Tagliavia, Città Nuove vuole avviare un dibattito-confronto con i cittadini che s'interrogano seriamente sul futuro della Sicilia e dei nostri territori. Come leggere la realtà di oggi, le dinamiche dell'economia, dei flussi migratori, della cultura? Cosa pensare di territori come i nostri che sembrano impoverirsi sempre di più, sia dal punto di vista economico-sociale, sia da un punto di vista culturale? Città Nuove ospiterà tutti gli interventi, disponibile poi ad organizzare anche un incontro in una data e in un luogo da concordare. (dp)
di ROBERTO TAGLIAVIA
Forse non ce ne rendiamo pienamente conto ma, dopo il Covid, saremo costretti a rivedere analisi e convinzioni radicate su economia, rapporti sociali cultura e politica. Ciò nonostante ho l’impressione che nessuno creda che sia davvero possibile cambiare, al più c’è la speranza ma lo scetticismo è palpabile. Del resto la cronaca ci rimbalza notizie di stupidità, violenza e inefficienza che gettano ombre inquietanti sul futuro. Cambiare, quindi, non sarà facile ma lasciare che le cose vadano come sempre sono andate porterà a un incanaglimento della società che nessuno si augura. Cosa cambiare, allora, e come intervenire?
C’è
chi si applica a questa o quella misura: il nuovo modo di lavorare, i tempi
della giustizia, la riforma della pubblica amministrazione, la scuola, la
ricerca scientifica, la circolazione del denaro, più Europa o più Stato nazione
o più autonomie locali. Sono tutti temi seri e importanti ma che non toccano il
male profondo di una società che vedendo messo in pericolo il futuro non
ritrova fiducia nelle corrette relazioni sociali. Tutti i nuovi scenari
appaiono belle intenzioni e nulla di più perché non è chiaro chi dovrebbe
realizzarle né come, anzi c’è il retro pensiero che di fronte alla gran massa di
finanziamenti che si prefigurano per il dopo Covid finirà che prevarrà la
regola del “chi afferra il turco è suo” in barba a ogni regola.
C’è
la percezione che la dimensione dei fenomeni sia ingovernabile: dalle
migrazioni al clima, dal controllo delle risorse e della finanza alla
complessità dei processi decisionali. Non resterebbe altro che rifugiarsi in
piccole comunità rassicuranti, discriminando gli altri e alzando muri per
tenere fermo il controllo del proprio territorio e delle sue risorse. E’ una
ricetta vecchia, terribile, che ci consegna ai clan, alle bande di quartiere,
che ci obbliga a trasformare tradizioni e culture in segni di riconoscimento
identitari, per separare i campi tra noi e loro, dove noi siamo noi con i
nostri diritti e loro sono gli altri con le loro inaccettabili pretese.
Questo
scivolamento verso semplificazioni rozze che pretendono di garantire la
sicurezza economica della collettività di cui facciamo parte, in realtà non
garantisce che altre comunità abbiano il sopravvento sulla nostra e che aumenti
il senso generale d’insicurezza e di disperazione. Il futuro di ciascuno è meno
sicuro ripercorrendo i vecchi modelli che fin qui hanno governato le nostre
azioni, eppure non avvertiamo l’urgenza di una mutazione profonda della nostra
cultura, di un ribaltamento completo del nostro modo di pensare, abbandonando
concorrenzialità a favore della cooperazione, rifuggendo la bulimia dell’avere
per sostituirla con le ragioni dell’essere. Oggi siamo miliardi su miliardi,
abbiamo scoperto i limiti della Terra e abbiamo le armi atomiche: le strade
antiche non sono più percorribili a meno di un disastro irreversibile.
Vabbè,
poesia diranno molti! Chi mai avrebbe tempo capacità e risorse per provocare
una totale conversione dei nostri rapporti sociali? Meglio impegnarsi ciascuno
per il proprio campo, senza pensare di cambiare la società, il sistema o il
mondo.
Questo
pseudo realismo, però, ci fa restare fermi al punto di partenza. E’ possibile
perseguire obiettivi di crescita e sviluppo se non riescono a trasformarsi in
comportamenti condivisi, in politiche comuni? E’ possibile coltivare le proprie
attività senza entrare in conflitto con le attività di altri? Evidentemente no.
Perché, allora, giuste battaglie sindacali, politiche, economiche appaiono
velleitarie e non riescono più a convincere le popolazioni a muoversi in una
direzione condivisa? Qual è il tarlo che logora ogni sforzo comune?
È
forse la mancanza di leader capace di unire almeno uno schieramento?
La
verità è che anche il leaderismo di questi anni ha rivelato tutta la sua
fragilità. Non è possibile, di fronte alla crisi epocale che viviamo e alla
difficoltà di gestire una società complessa, pensare che la volontà di un
leader possa bastare. Senza un’analisi e una selezione degli obiettivi, senza
una comprensione e condivisione di massa di ciò che serve ai tempi nuovi, non
c’è leaderismo che tenga.
Non
c’è più il socialismo, che a lungo ha svolto questa funzione, e anche le grandi
religioni non sembrano capaci di fronteggiare i processi innescati da scoperte
tecniche e scientifiche che hanno mutato la consapevolezza di ciascuno di noi.
Né l’estremismo o l’integralismo possono supplire al tramonto di vecchie regole
e superati codici interpretativi.
Oggi
servirebbe una nuova moralità confuciana, una lettura del mondo, una religione
laica capace di orientare i comportamenti prima e al di là delle proposte
culturali e politiche che dovranno rinascere nel nuovo contesto. Serve subito
una straordinaria mobilitazione culturale. Subito, ma è possibile realizzare un
simile cambiamento in pochi anni?
Giusto
il richiamo alle grandi religioni mi riporta alla memoria la straordinaria
esplosione mussulmana che seppe espandersi in soli 50 anni dalla Spagna
all’Africa centrosettentrionale, all’India e al Borneo fino all’Asia
continentale alla Turchia e ai Balcani, partendo da una comunità non
particolarmente organizzata. Questa espansione diede vita a stati e regni molto
diversi tra loro ma tutti assimilati da regole di comportamento e da valori
comuni, da una cultura di fondo condivisa, e questa fu la loro forza. Era una
cultura semplice per uomini semplici che fino ad allora erano vissuti ai
margini di sistemi imperiali complessi e opprimenti. Le poche e comprensibili
spiegazioni del Profeta prevalsero su religioni complesse come l’Induismo o lo
stesso Cristianesimo con le sue diatribe sulla natura del Cristo o la
complicatissima verità dell’unicità e trinità di Dio. Un’idea semplice:
esisteva un solo Dio cui ciascun fedele poteva accedere con poche semplici
regole che bastavano al rapporto diretto. Erano in parte norme igieniche e
salutari che accompagnavano le preghiere di ogni giorno e le grandi ricorrenze
annuali, e poche chiare regole per i rapporti economici e sociali. Aboliti
tutti gli altri riti e ammennicoli pagani, la condivisione pubblica di questo
stile di vita sobrio e austero fu una delle ragioni della rapidissima
espansione e del successo duraturo: una semplicità che seppe conquistare
l’umanità dispersa della penisola arabica, darle un tratto identitario, una
coscienza comune, una linea di riorganizzazione delle relazioni sociali
politiche ed economiche liberandola da gruppi dominanti privi di orizzonti e
offrendole una ragione per farsi rispettare dai popoli confinanti. Poi la
storia ha preso altre strade e l’espansione si è spenta e cristallizzata in
tante realtà ormai anch’esse incapaci di offrire una soluzione ai problemi dei
tempi moderni. Vale per tutti ciò che ci hanno rivelato le primavere arabe e,
in ultimo, ci sta mostrando la vicenda libanese.
Ciò
che interessa, però, è la rapidità di espansione e la durata di quel fenomeno
originario che riuscì a trasformare comunità disperse in un popolo di grande
cultura e civiltà.
Il
segreto? A mio avviso, la semplicità del messaggio che incontrò lo sperdimento
di masse umane disorganizzate e la volontà di un gruppo di uomini di offrire
attraverso quel messaggio una risposta alle ansie e ai bisogni di uomini
semplici.
E’
mia convinzione che oggi si possa provare a ripetere un simile processo che
liberi eguale energia, travolgente e ineludibile, a condizione che tutto ruoti
attorno a un’idea semplice, condivisibile e che dia risposta a tutti quelli che
soffrono il disagio della povertà culturale economica e sociale: un’idea che
faccia piazza pulita di rapporti di dipendenza fondati su amicizia, familismi,
appartenenze di partito, su clan, localismi, nazionalismi (tutti concetti che
dividono e separano). L’idea perno su cui deve ruotare tutta la costruzione di
una nuova società capace di liberare risorse e favorire i progetti di vita di
quante più persone possibile, nella sicurezza e nella cooperazione pacifica,
non può che essere il concetto di cittadino, di colui che deriva i suoi diritti
dal rispetto di regole, decise democraticamente e che devono valere per tutti
in determinato territorio: ciascuno tutelato nei suoi diritti a prescindere da
provenienze, razza, sesso, religione, appartenenze familiari o di qualsiasi
altro tipo.
Oggi
non è così e si pensa di poter aggirare le regole attivando amicizie e
appartenenze e rinunciando a esercitare la pratica politica per modificare
quanto di sbagliate o di vecchio dimostra di non funzionare, rinunciando
altresì a pretendere un efficace sistema di controlli e di tutela pubblica. In
questo lassismo riemerge il modello mafioso e ritorna, inestirpabile, la
corruzione: l’inefficienza della Sicilia o la terribile esplosione di Beirut
mostrano a quali estremi conduce la rinuncia a una democrazia attiva e
partecipata fondata sul diritto e sui doveri del cittadino.
Ma
chi dovrebbe avviare questa battaglia culturale per affermare la prevalenza del
diritto di cittadinanza su ogni altro vincolo identitario? Sicuramente un
nucleo di cittadini consapevoli, ben determinati a dare battaglia senza tregua
per questa prospettiva laica. Un nucleo dentro una rete di relazioni con tutti
i gruppi che in questi anni con le motivazioni più diverse hanno difeso i
nostri principi costituzionali pur interrogandosi sui limiti della nostra
organizzazione amministrativa di fronte ai grandi problemi della
globalizzazione e della modernità.
E
tuttavia non basta la volontà e la determinazione di pochi. Prima possibile
servirà che questa battaglia innervi una forza organizzata di massa, che
diventi partito o trasformi qualcuno degli esistenti, liberando lo scenario da
quell’elettoralismo devastante che ha deformato la scelta del personale
politico, la qualità della rappresentanza e la stessa attendibilità della
democrazia.
Può
un nucleo on-line, una rivista del web, o un cartello di queste realtà
diventare il promotore di questa rivoluzione laica? Sono convinto di sì ma
bisogna incominciare subito.
Palermo, agosto 2020
Nessun commento:
Posta un commento