di MAURIZIO MOLINARI
A d una settimana dal voto la campagna sul referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari mette in evidenza la differenza fra la vivacità del fronte del No e la staticità del partito del Sì: è la cartina tornasole di un’Italia politica che sta cambiando perché il populismo è in calo a vantaggio di un crescente desiderio di concretezza ed efficienza delle istituzioni.
Il fronte del No è una coalizione di identità assai diverse che attraversa il panorama politico e più in generale il Paese: dai militanti Dem alle feste dell’Unità ad alcuni dei fondatori del Pd, da nomi di spicco di Forza Italia a leader nazionali della Lega, da costituzionalisti progressisti ad esponenti più moderati, da veterani delle battaglie radicali sui diritti a portavoce delle tradizioni ambientaliste, cattoliche, socialiste, repubblicane e liberali.
Incontri pubblici, eventi privati e dirette online che si susseguono da Roma a Torino, da Bologna a Milano, da Trieste a Napoli, da Bari a Palermo, descrivono un fenomeno imprevisto fino ad un mese fa: attorno al No si coagula una coalizione di voci che non potrebbero essere più eterogenee ma sono accomunate da un elemento, la volontà di difendere la Costituzione e, di conseguenza le istituzioni, da una semplice riduzione dei parlamentari, priva di una idea di riforma, che indebolisce il principio della rappresentanza ovvero il rapporto fra eletti ed elettori.
Basta ascoltare le voci del fronte del No per comprendere la varietà di
motivazioni. Per Romano Prodi «il dimagrimento del Parlamento può essere solo
la conclusione di un necessario processo di riesame del funzionamento delle
nostre istituzioni». Gianfranco Pasquino aggiunge che «se si riduce
drasticamente il numero dei parlamentari sarà difficilissimo controllare il
governo». Matteo Rossini, del comitato del No di Bologna, si richiama
all’eredità di Umberto Terracini per sottolineare che «il popolo italiano è
chiamato a difendere la sovranità del parlamento, cosi come è stata concepita dai
Padri Costituenti». È una tesi convergente con quella di Giuseppe Tesauro,
presidente Emerito della Corte Costituzionale: «La riduzione dei parlamentari è
uno slogan elettorale, un’offesa ai valori della democrazia». Da qui i consigli
di Emanuele Macaluso, nome storico della sinistra, al partito democratico: «Il
segretario Zingaretti ha sottovalutato il carattere antiparlamentare dei 5
stelle che identificano il Parlamento con le poltrone, il Pd dovrebbe essere un
pungolo per far maturare questi ragazzi privi della benché minima cultura
politica, invece non succede nulla».
Il tutto sull’altare di un presunto risparmio attribuito al taglio che
l’economista Carlo Cottarelli demolisce con questi numeri: «In questo caso
ammonta a circa 57 milioni l’anno, lo 0,007 per cento della nostra spesa
pubblica pari a un euro all’anno per ciascun italiano, il prezzo di un caffè».
Come dire: non si stravolge la Costituzione per un beneficio tanto irrisorio.
Il filosofo progressista Massimo Cacciari è liquidatorio: «Il Sì è solo
una volgarissima marchetta ideologica a favore dei populisti». E Renato
Brunetta, senatore di Forza Italia ma spirito indipendente, concorda: «Se vince
il Sì vincono il M5S e l’antipolitica, perdono il centrosinistra e il
centrodestra insieme». La cantante Fiorella Mannoia parla d’istinto: «Voto No
perché non mi bevo il fatto che così si snellisce la votazione di una legge,
quando le hanno votate in tre giorni ogni volta che gli ha fatto comodo». E
l’attrice Sabrina Ferilli aggiunge un paragone efficace con il passato perché
«anche smantellare i piccoli partiti con il pretesto di legiferare più
velocemente si è dimostrato non solo una sciocchezza ma una resa». A conti
fatti un po’ tutti, progressisti e moderati, si ritrovano nella sintesi dello
scrittore Erri De Luca: «Dobbiamo sempre e solo difendere quel nobile pezzo di
carta che si chiama Costituzione». La conv ergenza di idee su No di identità
così diverse è un fatto di rilievo perché testimonia la vitalità del Paese.
Ma c’è dell’altro. L’energia e l’entusiasmo che distinguono il campo del No
lasciano intendere che la difesa del principio di rappresentanza appartiene al
dna di una nazione composta da un mosaico di località, territori, tradizioni e
identità ognuna delle quali ha radici antiche e rivendica il diritto di essere
valorizzata, ascoltata mentre teme di venir svilita, dimenticata, da un’estrema
semplificazione della politica figlia del populismo. Per una nazione nata con i
plebisciti sull’adesione all’Unità e riuscita a risollevarsi dalla dittatura
grazie ad una Costituzione repubblicana frutto del compromesso fra cattolici,
sinistra e laici significa ritrovarsi davanti alla conferma che al cuore del
legame fra Stato e cittadini italiani c’è il rispetto, non la cancellazione,
delle differenze reciproche.
La stagione del populismo, frutto della protesta contro i partiti
tradizionali che ha portato al risultato delle elezioni del 4 marzo 2018, aveva
posto in secondo piano questa caratteristica della vita politica nazionale
sulle ali di una indifferenziata sfida alle istituzioni in quanto tali.
Ma tutto ciò si è infranto contro l’emergenza della pandemia che ha fatto
percepire alla maggioranza degli italiani il bisogno di una sicurezza
collettiva — su sanità, economia e scuola — che richiede istituzioni più efficienti e
non più striminzite, politici più competenti e non più aggressivi, eletti più
vicini al territorio e non più lontani, idee di qualità e non fake news,
riforme serie e non scorciatoie. Aggrediti dalla necessità di una Sanità capace
di proteggerci da nemici invisibili, di riforme economiche di alto profilo per
rilanciare crescita ed occupazione, di scuole in grado di funzionare in
situazione di crisi e di competenti amministratori del territorio, gli stessi
italiani che avevano guardato al populismo augurandosi di liberarsi in fretta
dello Stato stanno ora riscoprendo il bisogno dell’efficienza delle istituzioni
nella loro vita quotidiana. Questo spiega e tiene assieme i dati che descrivono
un quadro politico in mutamento: il calo di popolarità personale di leader come
Matteo Salvini, il crollo di preferenze su scala nazionale del Movimento Cinque
Stelle, la maturazione del fenomeno delle Sardine, i favori in crescita per
leader percepiti come buoni amministratori del territorio — da Stefano Bonaccini
a Luca Zaia e Giovanni Toti — ed anche l’apprezzamento per il premier Conte per
aver guidato il Paese nella trincea anti-Covid. Ovvero, siamo in una fase di
transizione che vede il populismo in evidente calo nel Paese a favore di una
richiesta di concretezza che nasce dall’impellente bisogno collettivo di
ricostruzione, lavoro e diritti.
C’è tutto questo allo spalle del disordinato entusiasmo della coalizione
del No a cui si contrappone un partito del Sì espressione di ciò che resta del
populismo italiano: la parte più estrema della Lega e le rimanenti truppe
dell’ideologia grillina per la democrazia dir etta, accompagnate da ciò che
resta del sentimento anti-parlamentare del periodo pre-Covid. A prescindere da
opinioni di parte sul quesito referendario, è assai difficile non accorgersi
della differenza di tendenza nel Paese: il sentimento populista è in discesa
mentre la richiesta di efficienza alla politica è in crescita. A dimostrazione
che viviamo immersi in una stagione politica dai ritmi molto intensi. Quale che
sarà il risultato delle urne sul referendum del 20-21 settembre, è questo
cambiamento di umore e sentimento nel Paese a costituire la significativa
novità con cui tutti i leader e partiti dovranno fare i conti.
La Repubblica, 13 settembre 2020
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