di GIGI RAZETE
Trent’anni fa moriva la più grande interprete del folk siciliano Le testimonianze delle tante cantanti che sono cresciute col suo esempio
La "voce della Sicilia", quella aspra di Rosa Balistreri, si spegneva a Palermo il 20 settembre del 1990 a seguito di un ictus accusato il mese prima durante una tournée in Calabria. In tutta l’Isola sono già iniziati gli omaggi che celebrano il trentennale della scomparsa dell’interprete che rappresenta l’espressione più lirica, drammatica e genuina che il canto popolare siciliano abbia mai avuto; e il calendario ha il suo culmine nell’imminente ricorrenza, segno tangibile di una memoria lontana dall’oblio e di un lascito ancora così palpitante da annoverare un numero considerevole di artisti che, ognuno con una personale declinazione espressiva, ripropongono il repertorio.
Mario Modestini ha vissuto con Rosa Balistreri un pezzo cospicuo del
proprio percorso, iniziato nella seconda metà degli anni Settanta con "La
ballata del sale" (testi di Salvo Licata) e durato sino alla fine. « Quel
primo frutto dell’incontro con Rosa fu puro incanto – ricorda Modestini – e la
sua straordinaria interpretazione vocale diede luce vivissima a quegli antichi
canti del mare. Poi abbiamo condiviso altri momenti magici, come "Buela"
di Franco Scaldati, " Ohi Bambulé" ancora di Salvo Licata o "I
satiri alla caccia", coi testi di Ignazio Buttitta. Ci siamo incontrati
l’ultima volta a casa mia, nell’agosto del 1990, alla vigilia di alcuni suoi
spettacoli. Rimase affascinata da una canzone cui stavo dando forma finale,
"Acqua salsa", e con la sua consueta veemenza, ma carica di affetto,
mi intimò che quel canto avrei dovuto tenerlo da parte per lei. Non fece in
tempo ad interpretarlo e per molto tempo l’ho tenuto chiuso in un cassetto fino
a quando mi sono deciso ad inserirlo in " Mattanze", spettacolo a lei
dedicato, affidandolo alla voce di Jerusa Barros». Di Rosa Balistreri Modestini
continua ancor oggi a perpetuarne la dimensione poetica e, inoltre, nel suo
vivaio artistico si sono formate molte delle voci che tanto ieri quanto oggi
seguono le orme della grande licatese. « Rosa non ha lasciato alcuna erede –
dice secco Modestini – perché è impossibile accostarsi ad una drammaticità così
scorticata e così intimamente vissuta come la sua. La forza interpretativa,
l’istinto ferigno che l’animava in scena e la potenza vocale la rendono
irraggiungibile. Se avesse studiato e educato la voce, sarebbe stata un
contralto classico davvero eccezionale. Soprattutto, lei cantava come parlava,
la sua era la voce della terra e personalmente la colloco nello stesso
tabernacolo di Édith Piaf e Mahalia Jackson. Rosa era un’artista al di fuori
del tempo e, quindi, attualissima e ciò spiega perché sono in tanti,
generazione dopo generazione, a volerne seguire le orme. Pur convinto, dunque,
che non possa avere eredi, non nego mai consigli, informazioni e materiali
musicali a chi, innamoratosi di Rosa, si rivolge a me : in ciascuna di loro
scopro pezzetti diversi dell’arte di Rosa: a volte sono i languori passionali,
come in Jerusa Barros, nel cui canto Rosa trova magicamente posto accanto a
Cesária Évora, altre volte è invece l’affinità timbrica, come nel caso di
Debora Troìa».
Anche il percorso di Laura Mollica, figura centrale della nostra tradizione
e dall’Unesco inserita nel "Registro delle eredità immateriali della
Sicilia" come espressione d’identità siciliana, ha incrociato quello di
Rosa Balistreri. «La conobbi alla fine degli anni Settanta – racconta Mollica –
Su sua richiesta, presi la chitarra e intonai " Cuteddu ‘
ntussicatu", un canto di vicaria e vendetta. Mi disse che ero troppo
giovane per conoscere sentimenti così forti. Aveva ragione, lei donna del
popolo, io ragazzina quattordicenne di famiglia borghese. Mi colpì la sua
schiettezza: quello che pensava lo diceva e per questo non era molto amata. Con
me è stata sempre gentile ed una volta che condividevamo il camerino durante
una tournée col Teatro Biondo mi insegnò, da buona popolana, che i soldi
"s’ammucciano ‘nto pettu e ‘ nta panzera". Sulla scena era una
leonessa. Alla fine del primo tempo di "Buela", il sipario si
chiudeva sulle ultime note di una sua canzone, una ninnananna che eseguiva
abbracciata ad una luna di legno. Per tutta la tournée la spiai dietro le
quinte del palcoscenico. Mi ha insegnato che non si canta con la voce ma con
tutto il corpo. E quando il suo corpo vibrava, riusciva a
creare un’empatia fortissima col pubblico, anche non siciliano».
Anche Sara Cappello, storica protagonista della cultura popolare, ha
iniziato seguendo le orme della Balistreri: « Rosa è la voce stessa della terra
e delle donne siciliane – afferma – Di lei mi avvince il canto permeato al
tempo stesso di rabbia e dolcezza, due estremi che riflettono l’essenza di una
terra sempre divisa tra gioia e disperazione, amarezza e speranza. Il mio
registro vocale si discosta molto dal suo però mi ritrovo per incanto molto
vicina a lei nei sentimenti espressi. Nella dolcezza di ninne nanne come "
La siminzina", nel senso del sacro di " Lu verbo", nell’ironia
maliziosa di " L’acidduzzu di me’ cummari", nell’amore ardente di
" Nivuru carinusu" mi ritrovo in pieno, come se quelle canzoni
fossero state scritte per me. Non l’ho mai conosciuta personalmente ma ne ho
percepito tutta l’anima attraverso le sue canzoni».
Se i canti di Rosa Balistreri sono noti e apprezzati anche in Europa,
specie in Germania, buona parte del merito è della catanese Etta Scollo, che
vive da moltissimi anni a Berlino: « Rosa era artista fuori da ogni contesto e
coro – dice Scollo - l’unica capace di cortocircuitare mondi culturali diversi,
a tratti opposti, come il popolo dei quartieri più marginali e la critica più
raffinata. I suoi canti sono ancora attuali: canzoni come "La ballata del
prefetto Mori", musica di Ennio Morricone su versi di Ignazio Buttitta, e
" Storia di Lorenzo Panepinto", brano che Rosa raccolse a Santo
Stefano di Quisquina, sono invettive contro la mafia ancor oggi di
straordinaria urgenza. Soprattutto, Rosa era contemporanea. Ciò spiega perché
continua ad essere fonte di ispirazione per artisti assai diversi. Mi ha molto
emozionato una versione di "Cu ti lu dissi" interpretata da Chris
Obehi, un ragazzo fuggito dalla Nigeria che ha trovato accoglienza a Palermo.
Non lo conosco personalmente ma è proprio lui che sento più vicino a Rosa per
sofferenza, umanità e messaggio di bellezza e speranza».
Nell’espressione artistica di Egle Mazzamuto, cantante, attrice, e
musicologa, trovano, invece, emozionante sintesi l’enfasi e la dolcezza del
canto di Rosa e la viscerale crudezza del teatro di Franco Scaldati, del quale
è stata la pupilla. « Non l’ho conosciuta personalmente – dice Mazzamuto - ma
ho assorbito bene quel mondo, del quale la voce " poco educata" e
graffiante di Rosa si fa mezzo evocatore, grazie al mio maestro e a "Buela",
andato in scena al Teatro Biondo nell’aprile del 1982. Ho potuto, così,
viaggiare tra gli anfratti di una Sicilia dilaniata da guerra, da emigrazione e
fame, tra i piedi scalzi di bimbi che corrono tra le macerie, tra i corpi
senz’anima abbandonati negli "sdirrubbati" tra puttane, magnacci,
ammazzatine e antica solidarietà. È da quelle macerie che nasce il canto e il
grande teatro palermitano».
Sebbene abbia conquistato popolarità soprattutto come sanguigna interprete
di jazz, soul, blues, pop e folk, Alessandra Salerno ha incominciato proprio
con Rosa Balistreri: « Avevo otto anni e facevo parte del coro della mia scuola
elementare – ricorda la vocalist – In uno spettacolo al Teatro Biondo mi
diedero da cantare " Pirati a Palermo" e " La siminzina": è
stato il mio big bang, un fuoco che non si è spento mai più. Come tutti i
bambini avevo una spiccata emotività e quelle canzoni mi provocavano sentimenti
forti e contrastanti che non sapevo spiegare ma che mi turbavano profondamente.
Gli stessi sentimenti che poi ho provato accostandomi a Nina Simone, Aretha
Franklin, Edith Piaf, Chavela Vargas. Nel tempo Rosa Balistreri è rimasta ben
salda accanto a queste mie muse. Ciò che più mi accomuna a lei è l’odio per le
ingiustizie sociali e il rapporto con la nostra terra. Non è un caso che tra le
canzoni di Rosa che più sento mie c’è "Terra ca nun senti": lì c’è il
mio sogno americano, il mio fuggire, il mio tornare ».
La Repubblica Palermo, 19 settembre 2020
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