di AMELIA CRISANTINO
L’Ottocento è il secolo identitario in cui si definiscono i profili odierni, ma è poco conosciuto e ancor meno studiato: specie quello siciliano, col suo tracimare di passioni e confuse aspirazioni alla libertà. È quindi con sincero interesse che si accoglie un titolo come I misfatti prima della mafia. Bagheria dal 1820 alla Restaurazione borbonica di Biagio Napoli e Salvatore Brancato (Plumelia, 313 pagine, 20 euro), che ha il merito di richiamare l’attenzione su Bagheria, che all’epoca conta circa settemila abitanti e poco dopo l’Unità avrebbe vissuto un clima di violenza tale da produrre numerosi omicidi in pochi anni. L’esito sarebbe stato il processo all’associazione dei Fratuzzi: con le sue 29 condanne quel processo era la risposta dello Stato all’incomprensibile groviglio di violenza all’opera in Sicilia, era come ottenere un certificato antimafia all’incontrario.
I bagheresi venivano condannati perché riconosciuti parte di
un’associazione che a livello locale poteva vantare ottime protezioni. Ma non
c’era solo Bagheria: nelle conclusioni della Questura, i Fratuzzi facevano
parte di una più estesa organizzazione che – a partire dai monrealesi
Stuppagghieri – si diramava nell’entroterra palermitano. Del resto Monreale e
Bagheria sono per più versi collegabili, e nel 1867 una smarrita Commissione
d’inchiesta li accomunava dicendoli parte della « corona di spine che circonda
Palermo»: luoghi popolati da gente manesca, dove a ogni rivoluzione erano
arrivate squadre di picciotti presto ingovernabili. Biagio Napoli e Salvatore
Brancato cercano di osservare cosa accade “prima” di questo esordio.
A un primo sguardo sembra che Bagheria non si distingua dagli altri paesi
del circondario di Palermo. C’è l’emergenza creata dal banditismo, dalle “
comitive armate” che tra il 1819 e il 1849 infestano le campagne concentrandosi
sull’affare più promettente, l’abigeato: vale a dire un crimine che necessita
di un’organizzazione per prelevare gli animali, trasportarli e venderli persino
in Tunisia.
Fra i protagonisti troviamo Giovan Battista Scordato, arrestato la sera del
17 gennaio 1841 e protagonista di una fuga da film neorealista nell’ottobre del
’ 42: quando è assieme ad altri undici compagni di sventura e scappano tutti,
riuscendo a seminare i cinque gendarmi che li scortano dalla provincia di
Catania a quella di Caltanissetta. Nonostante la taglia Scordato non sarà più
catturato. Muore nel dicembre del 1843 per mano di un uomo a cui stava rubando
il cavallo: ma chissà, forse è tutto un imbroglio per mantenerlo libero e le
voci si rincorrono. Ancora nel 1848, quando il fratello Giuseppe arriva a
Palermo alla testa di una squadra di bagheresi, subito si diffonde la notizia
che il bandito non è mai morto ed è tornato.
Fallita la rivoluzione Bagheria è fra quei paesi che chiedono
clemenza, ma non è facile. Adesso i ribaldi spadroneggiano, vengono
danneggiate le campagne di chi assieme al sindaco Gesualdo Pittalà s’è recato a
Termini a presentare atto di sottomissione. Nelle parole del Delegato, «i
tristi passeggiano impunemente armati in Bagaria imbaldanziti che ivi non v’ha
attualmente forza che possa reprimerli»: sono “tristi” o sono oppositori
politici? Le tensioni arrivano a compimento la sera del 2 luglio 1849, quando
il sindaco Pittalà viene ucciso nel suo studio notarile affollato di presenze
poco rassicuranti fra cui Giuseppe Scordato, l’ex eroe della rivoluzione che
adesso passa da uno schieramento all’altro.
Dai documenti viene fuori che Pittalà, «sindaco borbonico onesto e
corretto», addirittura s’era indebitato per comprare frumento dal principe di
Valdina – che ne aveva i magazzini pieni – e distribuirlo ai più poveri. Napoli
e Brancato concludono che il sindaco è «espressione di una borghesia buona, non
mafiosa, culturalmente attrezzata».
Bastano vent’anni e non c’è più traccia di amministratori come Pittalà:
attorno al Comune adesso lottano famiglie e fazioni, il clima genericamente
violento ha lasciato emergere quella che nel 1876 Leopoldo Franchetti avrebbe
definito « borghesia mafiosa».
Nell’introduzione, Antonino Morreale scrive che «per fare una mafia intera
ci vogliono tutti gli ingredienti, e nel 1820-50 non ci sono ancora», ci sono
piuttosto le condizioni di base a partire dalla disinvoltura nell’uso della
violenza. Nel 1876 s’era completato il quadro. Gabelloti, campieri, guardiani e
«conniventi di civil ceto» hanno ormai individuato gli obiettivi: in alto i
nobili da derubare e in basso i poveri da sfruttare. Forse per la borghesia non
era inevitabile divenire mafiosa, ma dobbiamo ancora capire cosa realmente
avviene nei paesi che formano «la corona di spine che circonda Palermo».
La Repubblica Palermo, 5 febbraio 2020
Nessun commento:
Posta un commento