Don Giuseppe Puglisi |
Dalle emergenze processuali, siano esse costituite da propalazioni dei singoli collaboratori - primo fra tutti Grigoli Salvatore, autoaccusatosi di avere personalmente ucciso il povero sacerdote - che da attività di investigazione tradizionale, è dato affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’omicidio di padre Giuseppe Puglisi rispondeva ad una concreta esigenza, dal punto di vista criminale, della famiglia mafiosa di Brancaccio, disturbata dall’opera incessante di lotta verbale e attivamente fattiva del coraggioso prete, volta ad affrancare il quartiere dallo stato di soggezione e di degrado in cui versava.
L’uccisione del parroco di Brancaccio rispondeva alla necessità di sopravvivenza della stabilità criminale di quell’aggregato mafioso locale, all’esigenza di consolidamento del sistema di potere criminale e di terrore nel quartiere, messa in forse dall’azione del prete: il controllo del territorio e la sovranità criminale sullo stesso, invero, come già detto, costituiscono il motivo ed il movente dell’efferato atto delittuoso punitivo.
Come hanno ben osservato i primi giudici nella parte motiva dell’impugnata sentenza, e come già detto, l’opera di Don Pino aveva finito per rappresentare una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente e reazionario che era stato imposto nella zona, contro cui il prete mostrava di essere uno dei più tenaci ed indomiti oppositori. L’interesse alla eliminazione del buon prete, quindi, coinvolgeva tutta la «famiglia», rispondendo alla necessità funzionale della stessa.
Ed invero, «ciò che doveva essere bloccato era il progetto che il parroco stava attuando di liberare le forze sane della società civile, favorendo un processo di avanzamento del fronte della legalità: detto fronte doveva essere spezzato, colpendo al cuore questo movimento, e l’attacco doveva essere condotto proprio nel cuore del quartiere di Brancaccio», onde ripristinare la forza del potere mafioso su quel territorio.
E la famiglia mafiosa di quel famigerato quartiere di periferia, all’epoca dei fatti, per cui è processo, era capeggiata saldamento dai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, entrambi latitanti, con braccio operativo Mangano Antonino che dirigeva sul campo l’attività del sodalizio.
E’ stato acclarato, infatti, dalle tante prove accumulate nel corso di un’incessante istruzione dibattimentale, che la posizione preminente in seno a quel sodalizio criminoso, da liberi ma pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i predetti due fratelli, quali incontrastati capi «ex-equo», indipendentemente dall’attribuzione di qualunque carica formale: a Brancaccio, invero, in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi, «non si muoveva foglia senza il consenso dei fratelli Graviano.»
Su quel territorio, quindi, dilagava indiscusso e inviolato, il potere di entrambi i fratelli Graviano, indicati unanimemente come i massimi esponenti del mandamento, controllori incontrastati del territorio e di parte dell’apparato militare della mafia, i quali agivano sempre insieme e di concerto tra di loro, anche se formalmente il capo mandamento veniva indicato nella persona di Giuseppe.
Sull’omicidio di padre Puglisi la fonte di conoscenza primaria è quasi esclusivamente Grigoli Salvatore, il quale si è autoaccusato di avere personalmente ucciso il sacerdote ed ha indicato gli altri partecipanti alla esecuzione materiale del crimine (Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo) nonché la causale ed i mandanti, gli odierni imputati Giuseppe e Filippo Graviano.
Gli altri collaboratori, non avendo preso parte al delitto, non hanno potuto riferire altro che quello che nell’ambiente era trapelato in ordine al fatto delittuoso.
Causale ed autori materiali del crimine erano venuti fuori, tuttavia, prima della cattura e della collaborazione di colui che premette il grilletto della pistola silenziosa e pose fine alla vita di un uomo giusto, attraverso notizie più o meno dirette fornite dagli altri collaboranti.
Era conseguenziale, quindi, secondo i criteri ben precisi che regolano il fenomeno omicidiario in «Cosa Nostra», risalire ai mandanti, nelle persone dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, genericamente indicati come «i picciotti», in quanto indiscussi dominatori del quartiere.
L’esistenza, la struttura verticistica, l’organizzazione su base territoriale (per famiglie, mandamento, e quant’altro), le principali caratteristiche dell’attività dell’organizzazione criminale denominata «Cosa Nostra» e le modalità di partecipazione alla stessa, da parte dell’uomo d’onore ritualmente «combinato» o di chi abbia posto in essere condotte parimenti indicative di uno stabile vincolo associativo, sono state inconfutabilmente accertate e analiticamente approfondite in diversi processi ormai definiti e principalmente nell’ambito del processo storico così detto «maxi uno».
In questa sede, pertanto, non occorre soffermarsi più di tanto su detti argomenti, essendo sufficiente rimandare a quanto è stato affermato nella sentenza resa dalla Suprema Corte all’esito del procedimento penale sopra menzionato, ritualmente acquisita agli atti del processo (Sentenza numero 80 Registro Generale 1992).
Piuttosto, per quel che qui maggiormente interessa, va rilevato che, come pure è stato ormai acclarato, il fenomeno omicidiario in «Cosa Nostra» ha delle regole ben determinate, dei moventi ben precisi, e che la stessa struttura dell’organizzazione criminale, articolata per territorio, influenza la scelta delle vittime.
Al riguardo, il collaborante Drago Giovanni ha ribadito, nel corso del suo esame, che proprio per la struttura dell’organizzazione mafiosa «cosa nostra», per il modo in cui la stessa è articolata, questo omicidio, l’omicidio di un sacerdote, l’omicidio di così grande levatura, non può che essere avvenuto con l’assenso di coloro che erano i capi storici della famiglia di Brancaccio, cioè a dire dei fratelli Graviano Giuseppe e Graviano Filippo.
Anche Brusca Giovanni, il noto collaborante già famigerato capo della famiglia di San Giuseppe Jato, rispondendo ad una precisa domanda del Pubblico Ministero che gli chiedeva se avesse appreso chi erano stati i mandanti dell’uccisione di padre Puglisi, ha affermato testualmente:
«......Guardi, come mandanti per me il punto di riferimento è Giuseppe Graviano, come capo mandamento di Brancaccio, all’epoca dell’omicidio” del sacerdote.
“Poi lo affiancava, perché si può dire che decidevano quasi tutto assieme, Filippo...”. “Tra i due fratelli non c’era nessun tipo di problema...Filippo come se fosse la stessa persona di Giuseppe ...cioè, come si suol dire, erano la stessa persona”.
Questa asserzione sui due Graviano come mandanti dell’uccisione del povero prete dei diseredati si basa non solo su quelle che sono le regole ben precise di «cosa nostra» in ordine agli omicidi, ma risulta altresì provata, manifestamente e pacificamente, grazie ad una miriade di concordanti ed incontrovertibili emergenze processuali. Prima fra tutte le dichiarazioni accusatorie di Grigoli Salvatore, il solo che è in grado di fornirci elementi di conoscenza diretta su chi effettivamente diede l’ordine di uccidere il religioso.
E detto collaborante, nel corso del suo primo esame dibattimentale, avvenuto all’udienza del 28 ottobre 1997 tenuta dalla Corte di Assise, a precisa domanda, ha chiarito che Nino Mangano gli disse che «i picciotti» gli «avevano parlato» che si doveva fare questo tipo di delitto, facendo, quindi, esplicito riferimento ai «picciotti», quali mandanti dell’uccisione del prete.
E il termine generico «i picciotti» sicuramente ed incontestabilmente si riferisce ai fratelli Graviano Giuseppe e Filippo, odierni imputati.
Inoltre, poiché, come ha precisato lo stesso Grigoli, i due fratelli « le decisioni sicuramente le prendevano insieme», nessun ragionevole dubbio può sussistere in ordine alla effettiva e cosciente compartecipazione di entrambi al terribile mandato assassino.
Il riferimento generico ai «picciotti», sicuramente individuati nei due fratelli Giuseppe e Filippo, costantemente e unanimemente fatto dai vari collaboranti nelle loro convergenti propalazioni, è più che sufficiente ad assumere la connotazione di elemento individualizzante dei due congiunti.
Al riguardo, il Grigoli ha precisato: «Vorrei sottolineare che si intendevano ...i fratelli Graviano i picciotti». «Quando si parlava di picciotti non è che si parlava di altre persone, si parlava dei fratelli Graviano, o i picciotti o madre natura». «...In genere Nino Mangano, dipende cosa mandavano a dire, diceva: i picciotti vogliono che facciamo questa tale cosa. I picciotti vogliono che si fa questo omicidio, e, alcune volte, ci spiegava anche il perché». «Erano tutti e due, in sostanza, a reggerlo anche se si parlava di Giuseppe come capo mandamento. Però c’era riferimento ai picciotti». E’ certo, quindi, che i «picciotti» si identificavano indiscutibilmente nei due fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i quali stavano costantemente insieme e d’accordo reggevano le fila del mandamento di Brancaccio anche nel periodo in cui erano latitanti.
Le volontà dei due fratelli nell’ideazione, decisione ed esecuzione dell’omicidio di don Puglisi, quindi, sono state perfettamente convergenti, fino al punto di congiungersi, unificarsi e diventare all’esterno la volontà indistinta dei «picciotti».
Invero, il fatto era di tale gravità da richiedere certamente un preventivo accordo decisionale fra i due congiunti: trattandosi di un omicidio eclatante, la determinazione di uccidere non si poteva esaurire nel singolo ma richiedeva necessariamente l’assenso di entrambi i fratelli.
La scelta di uccidere un rappresentante del clero locale, divenuto ormai un «personaggio», per il suo impegno antimafia, richiedeva necessariamente un coinvolgimento della volontà di entrambi i fratelli, in quanto l’atto omicidiario, tra l’altro, avrebbe suscitato una enorme indignazione popolare ed avrebbe creato un eccessivo scalpore con evidente danno per quella articolazione locale dell’organizzazione criminale a causa dell’aspra reazione delle forze dell’ordine, così come in effetti poi è avvenuto.
Non bisogna dimenticare che la commissione di un omicidio così eclatante in quel particolare momento non fu condiviso da tutti all’interno dell’organizzazione criminale. Lo stesso Bagarella, che non si faceva scrupoli ad uccidere o fare uccidere anche per ragioni molto meno gravi di quelle che costituiscono la causale di questo, ebbe ad avanzare critiche non per l’omicidio in sé, ma per il momento tardivo in cui il crimine era stato commesso, e, cioè, quando padre Puglisi era diventato un «personaggio» e, quindi, la sua uccisione aveva creato enorme scalpore con conseguente danno per l’organizzazione. Del resto, se, come è stato probatoriamente dimostrato, normalmente vi era una gestione familiare dei crimini, se vi era solitamente un accordo fra i due fratelli per la realizzazione delle azioni criminose che in genere venivano poste in essere nell’interesse e per i bisogni, dal punto di vista criminale, della famiglia, non si vede perché debba escludersi che un accordo vi sia stato per l’omicidio del povero prete dei diseredati.
Alla luce delle tante prove accumulate nel processo, è da disattendere, pertanto, anche sul piano logico, l’idea che il Filippo potesse avere rispetto al fratello una diversa opinione sul modo di arginare l’attività nociva del sacerdote, l’attivismo del coraggioso prete che osava insidiare addirittura la stessa sopravvivenza e la stabilità criminale dell’intera dinastia mafiosa di consolidate origini e tradizioni. Ed è errato pensare che l’un fratello non sapesse ciò che l’altro stava ordinando, così come non è esatto ipotizzare un eventuale silenzioso disaccordo del Filippo sulla soppressione dell’esponente del clero siciliano.
Dal principio, assoluto ed inderogabile, vigente nell’organizzazione criminale «Cosa Nostra», secondo cui nessun omicidio può essere commesso nella zona di influenza di una determinata famiglia, specie se trattasi di «omicidio eccellente», senza il consenso del vertice della famiglia stessa; dalle precise e puntuali dichiarazioni accusatorie di Grigoli Salvatore, che indica genericamente come mandanti dell’uccisione di Padre Puglisi «i picciotti», sicuramente individuati in Giuseppe e Filippo Graviano; dall’acclarato inserimento organico, con posizioni paritarie di preminenza, dei due predetti fratelli, nell’organizzazione criminale denominata «Cosa Nostra»; dalla provata gestione familiare dei crimini in generale e dal dimostrato consueto accordo tra gli stessi fratelli nella ideazione e nella realizzazione delle azioni criminose, è gioco forza affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che vi sia stato un accordo decisionale tra i medesimi anche in ordine alla terribile scelta di sopprimere il povero sacerdote: un uomo giusto ma che, nell’ottica perversa del sistema mafioso costituiva un elemento di disturbo e di sovversione da eliminare.
L’assassinio punitivo di don Pino Puglisi, il buon parroco della chiesa di San Gaetano, in quanto momento di ripristino della forza mafiosa nel quartiere di Brancaccio, infatti, costituì la soluzione finale per un problema di coloro che quel territorio controllavano e sul quale dominavano in modo incontrastato.
Del resto, l’ascrivibilità del delitto che ci occupa all’organizzazione criminale «Cosa Nostra», nell’articolazione particolare di quella periferia della città, è stata definitivamente accertata nel processo a carico dei correi degli odierni imputati, Mangano Antonino, Spatuzza Gaspare, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo, conclusosi con la condanna degli stessi alla pena a vita.
Non bisogna dimenticare che l’uccisione di don Pino Puglisi - prete coraggioso che si batteva per gli emarginati, che dava accoglienza alle famiglie dei detenuti e sfamava i diseredati e che stava attuando il progetto di liberare le forze sane della società civile dal potere mafioso e di portare avanti un processo di avanzamento del fronte della legalità - rispondeva alle necessità funzionali della famiglia del quartiere ed era finalizzato ad affermare e consolidare l’egemonia mafiosa del gruppo criminale emergente che dominava nel territorio e che vedeva quali capi incontrastati, nei primi anni novanta, proprio Giuseppe e Filippo Graviano, unanimemente considerati come i massimi esponenti del mandamento, con un ruolo paritario, senza che l’uno primeggiasse o fosse più o meno capace dell’altro ad attuare il dominio territoriale nella zona, dove indiscusso ed inviolato dilagava di fatto il loro potere.
E non bisogna neppure dimenticare che l’uccisione di don Pino, come esattamente osservato dai giudici del primo grado di giudizio, si inquadrava in una strategia di livello criminale nazionale, consistente, tra l’altro, anche nell’aggressione sferrata dalla mafia alla Chiesa come Istituzione, strategia che i due Graviano ebbero a condividere pienamente, come risulta dagli accertamenti investigativi all’uopo espletati e dalle conseguenti iniziative giudiziarie.
Ebbene, se i fratelli Graviano di fatto erano i capi incontrastati della famiglia criminale di Brancaccio e se gli stessi condivisero una strategia stragista di respiro nazionale che prevedeva tra gli atti eclatanti anche l’assassinio terroristico del parroco di Brancaccio, non ha ragione di esistere il dubbio, esternato dai primi giudici nell’impugnata sentenza, che Filippo avrebbe potuto non sapere.
Conseguentemente, l’affermazione della Corte di Assise, secondo cui “non può neppure escludersi che il Filippo potesse avere rispetto al fratello una diversa opinione sul modo di arginare l’attività nociva del sacerdote”, alla luce di quelle che sono le precise risultanze processuali, non ha una compiuta e raziocinante ragione di esistere e va del tutto disattesa.
Del pari disattesa va la prospettazione difensiva di “un potere contrapposto” a quello dei Graviano, nel quartiere di Brancaccio, in epoca coeva all’uccisione di don Pino Puglisi; di “frange indipendenti ed autonome, di tresche e clandestinizzazioni (gruppi di fuoco autonomi) determinanti una situazione assolutamente ambigua ed indecifrabile tale da non consentire la imputabilità certa” dei Graviano medesimi.
Come già detto, infatti, la posizione preminente in seno a quel territorio, da liberi ma pur durante la latitanza e successivamente anche dal carcere, era di entrambi i predetti due congiunti, quali incontrastati capi di quell’assetto mafioso.
E, proprio in forza di tale potere i fratelli Graviano hanno assunto l’iniziativa e si sono determinati a togliere la vita al coraggioso sacerdote in assoluta autonomia decisionale ed indipendenza e nel pieno rispetto del dogma della onnipotenza di «Cosa Nostra».
Anche l’altro assunto difensivo, poi, secondo cui l’assassinio di padre Puglisi “ha rappresentato la mossa giusta al momento giusto perché potessero uscire definitivamente di scena” i fratelli Graviano, “secondo un piano a tal punto ben preordinato da terzi”, si basa non già su elementi probatori acquisiti agli atti del processo sibbene su mere congetture e su pure illazioni.
Pertanto, l’ipotesi adombrata dalla Difesa di “una sorta di sovrapposizione di poteri e di tradimenti”, in seno al mandamento di Brancaccio, “in coincidenza temporale con la rilevata assenza dei Graviano da quel territorio”, con conseguente “addirittura isolati exploit da parte di frange indipendentiste che perseguivano interessi e vendette personali”, estranei agli interessi di «Cosa Nostra», non trova fondamento alcuno nelle emergenze processuali, ma anzi è in netto e palese contrasto con le risultanze medesime.
Contrariamente a quanto dedotto dalla Difesa, invero, il parroco della Chiesa di San Gaetano in Brancaccio, i cui sermoni non risparmiavano veementi attacchi ad ogni forma di sopruso e di sopraffazione, rappresentava un elemento di turbamento ed un pericolo per l’ordine mafioso costituito in quel territorio. Da qui un interesse reale alla sua eliminazione da parte di coloro che l’egemonia mafiosa detenevano: si trattava, infatti, di riscattare attraverso l’omicidio una immagine di leaders calpestata.
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