di AMELIA CRISANTINO
L’ 8 luglio del 1960 la rivolta popolare contro il
governo Tambroni fu soffocata nel sangue. Fu il giorno delle " magliette a
strisce"
Nel luglio 1960 sembrò che si fosse toccato il fondo, che il sempre
difficile rapporto fra i siciliani e le istituzioni non potesse andar peggio,
le mai risolte emergenze sembravano tutte ringalluzzite. Danilo Dolci
continuava a pubblicare denunce su denunce, e certo non era colpa sua se
l’Italia fiduciosamente alacre del miracolo economico era così lontana dalla
miseria dei cortili palermitani. Ma c’era sempre quasi la necessità di
scusarsi.
La mattina dell’ 8 luglio, come scrisse Marcello Cimino su "
L’Ora", piazza Politeama era presidiata e sbarrata da tutti i lati: era
stato indetto uno sciopero generale contro il governo Tambroni che rimaneva in
piedi grazie ai voti dei monarchici e dei neofascisti, i quali avevano pure
organizzato il loro congresso nazionale a Genova, la città medaglia d’oro della
Resistenza. Una sfida a cui risponde un’ondata di scioperi, scontri di piazza,
feriti e anche morti, perché la polizia spara e a Reggio Emilia il 7 luglio ci
sono cinque morti. Ci sono morti anche nelle manifestazioni minori, come a
Licata il 5 luglio, quando uno sciopero per il lavoro vede schierati in campo
reparti speciali dell’esercito, polizia e carabinieri: un ragazzo di 22 anni
colpito da una pallottola muore per strada.
A Palermo lo scenario è da sommossa. Il corteo indetto dalla Cgil per i
fatti di Reggio è scortato da ingenti schieramenti di polizia, l’atmosfera è
elettrica: già il 27 giugno una manifestazione degli edili era stata tutt’altro
che pacifica, all’altezza della Cattedrale la polizia aveva caricato e solo per
miracolo non c’era scappato il morto. A complicare ancora le cose, a Palermo e
un po’ ovunque in Italia adesso scendono in piazza i ragazzi: sono i "
giovani dalle magliette a strisce" e la mattina dell’8 luglio sono in
tanti. Indossano il simbolo della rivolta, arrivano dalle borgate e dal centro
storico che si sta svuotando. Sono operai, netturbini e tantissimi edili.
Di prima mattina Pio La Torre è stato al Cantiere navale, e quando comincia
il comizio a piazza Politeama riesce a parlare per dieci minuti. Poi arrivano
le cariche della polizia, la Celere assalta il corteo e i manifestanti
rispondono col lancio di sassi, bastoni, arredi urbani divelti. Lo spazio fra
piazza principe di Castelnuovo e piazza Verdi si trasforma in campo di
battaglia, alberi e panchine divelte fanno da barricata. Nel pomeriggio la
guerriglia urbana prosegue, feroce e disperata. Pio La Torre è nella calca,
cerca di impedire che si innalzino barricate ma è impossibile essere
ragionevoli: «Non che fossero state lanciate parole d’ordine nuove e tantomeno
incitamenti – scriveva Marcello Cimino – eppure le cose presero proprio
l’andamento di una sommossa ».
Di fronte alla reazione dei manifestanti, di fronte ai blitz dei ragazzi in
magliette a strisce che sbucano in massa dai vicoli, colpiscono e
spariscono, i reparti armati perdono la testa. Vengono adoperati gli idranti, i
gas lacrimogeni. Infine si spara.
La prima a morire fu la signora Rosa La Barbera di 53 anni: abitante in via
Rosalino Pilo, impaurita da quanto accadeva in piazza Massimo si mostrò per un
attimo, il tempo di chiudere le imposte di casa. Venne colpita all’addome da un
colpo di arma da fuoco sparato da un reparto di carabinieri appostato davanti
alla scalinata del teatro. Quello stesso reparto sparò ancora e poco dopo colpì
Francesco Vella di anni 44, un operaio-sindacalista molto popolare che cercava
di sospingere i giovani edili verso via Bara, al sicuro: stava gridando « via,
via, non fatevi ammazzare! ».
Gli scontri si esauriscono e poi riprendono, c’è posto per lo sgomento e
anche per la rabbia. I manifestanti hanno gli occhi rossi per i lacrimogeni,
sono confusi. Stanno raggruppati, la piazza appare calma quando arrivano alcuni
camion con agenti e carabinieri che scendono dai loro mezzi in tenuta da
sommossa. Ricominciano gli scontri, quasi nulla viene risparmiato: solo le
luminarie per l’iminente Festino, l’unico simbolo che i manifestanti
sentono come proprio e quindi rispettano.
Alle 19 la guerriglia impazza. I giovani stanno disselciando via Cavour,
lanciano sassi. Ricominciano gli spari. In via Spinuzza muore Andre« Gancitano,
operaio edile di 19 anni: giovanissimo comunista, anche lui viene colpito
mentre cerca di fermare i suoi compagni. Giuseppe Malleo aveva solo 15 anni, è
colpito al torace in via Celso e muore qualche giorno dopo.
Oltre ai quattro morti nel bilancio finale si contano centinaia di feriti e
contusi, 40 persone colpite con armi da fuoco, 370 fermati, 71 dimostranti
arrestati. Una giornata tragica che trova un’eco anche a Catania dove in piazza
Stesicoro, durante la manifestazione contro il governo Tambroni un edile
disoccupato, Salvatore Novembre, rimane solo e viene ucciso in una maniera che
oggi farebbe indignare il mondo: prima a manganel-late, quando è a terra
svenuto un poliziotto gli spara addosso ripetutamente.
Seguono tre diversi procedimenti penali, il più importante ha inizio a
Palermo il 16 ottobre. Dopo appena 12 giorni di dibattimento tutti i 53 imputati
vengono condannati a pene che vanno dai sei mesi agli otto anni di reclusione.
La mobilitazione promossa in tutta Italia contro il governo Tambroni
raggiunse comunque il suo obiettivo, il governo si dimise. Ma il profondo
malessere che aveva spinto la parte più povera ed emarginata della città a
irrompere con rabbia nella scena urbana non venne compreso. Con un certo
imbarazzo forse ci si accorse che i diseredati ogni tanto diventavano una
polveriera. Meglio stare attenti.
La Repubblica Palermo, 9 luglio 2020
Nessun commento:
Posta un commento