di SALVO PALAZZOLO
«Carenza dei requisiti soggettivi, sia in capo alla vittima, sia in capo ai
potenziali beneficiari». Così un dirigente del ministero dell’Interno ha
liquidato, nel più burocratico degli stili, la storia di Lia Pipitone, la
figlia ribelle del boss dell’Acquasanta uccisa nel 1983. Appena cinque pagine
per dire che quella ragazza di 25 anni che sfidò il padre padrino non può
essere considerata vittima della mafia in base alla legge. E che suo figlio e
suo marito non possono avere alcun risarcimento. Povera Lia. Per trent’anni, lo
Stato ha archiviato il caso come una rapina finita male. I boss avevano
architettato una grande messinscena all’interno di una sanitaria di via Papa
Sergio.
«La ragazza doveva essere punita per una sua relazione extraconiugale — ha
spiegato il pentito Francesco Di Carlo — il vertice della famiglia convocò il
padre per comunicargli che il problema sarebbe stato risolto eliminando la
figlia. E il padre acconsentì» . Una messinscena che non insospettì la polizia.
E oggi viene da pensare male: le ultime indagini della procura generale
sull’omicidio dell’agente Agostino raccontano che il clan dell’Acquasanta
teneva rapporti con ambienti deviati delle forze dell’ordine e dei servizi
segreti, il clan dell’Acquasanta custodiva la base operativa da dove partivano
i sicari di Riina per gli omicidi eccellenti di Palermo. In quel quartiere
Lia voleva vivere la sua vita. Non era un’attivista politica, non faceva cortei
e non urlava slogan. Lia era una ragazza che a 18 anni era fuggita con il
fidanzatino conosciuto al liceo artistico, il fidanzatino poi diventato marito
dopo che i boss di mezza Sicilia si erano messi a cercarli. Lia amava indossare
i jeans invece delle gonne sotto il ginocchio. Lia amava la musica, le feste in
strada e le sigarette con gli amici. Troppo rumore in quel quartiere che
doveva essere una zona franca. E troppo scandalo per quell’amico del cuore che
lei adorava, Simone Di Trapani si chiamava. Un tam tam terribile trasformò
quell’amico in un amante. Dopo aver ucciso Lia, i boss dell’Acquasanta corsero
a casa di Simone, fingendosi operai del gas, e lo obbligarono a scrivere una
lettera in cui diceva che si suicidava per amore di Lia. Poi, lo scaraventarono
giù dal quarto piano. Un’altra colossale messinscena, perché la vita
normale, la voglia di libertà, di quei due ragazzi stava rischiando di mettere
in crisi la famiglia più riservata e più ortodossa di Cosa nostra. «La figlia
voleva peraltro separarsi dal marito, era diventata una questione d’onore — ha
detto ancora Di Carlo — Nino Pipitone doveva recuperare il prestigio perso».
Poco prima dell’omicidio, il padre parlò un’ultima volta con la ragazza. Gli
disse chiaramente: «Meglio una figlia morta che separata» . E Lia, che
negli ultimi tempi aveva ripetuto «Voglio andare via con il piccolo Alessio»,
sussurrò al marito: «Promettimi che ti occuperai sempre di nostro figlio ». Lia
aveva capito il destino a cui andava incontro. Ma non si piegò mai alle
imposizioni del padre.
Sarebbe bastato leggere l’ultima sentenza emessa dai giudici di Palermo,
quella che ha condannato i boss Nino Madonia e Vincenzo Galatolo, per rendere
finalmente onore a Lia. Ma nelle cinque pagine che liquidano la storia di
questa giovane oggi diventata un simbolo per tanti ragazzi dei quartieri non si
fa neanche cenno alla sentenza. Si arriva a dire che il figlio Alessio (che ha
fatto riaprire il caso) e il marito di Lia, Gero Cordaro, hanno fatto domanda «fuori
termine» . Si dice pure che il marito di Lia non avrebbe rotto con il suocero,
perché nel primo processo contro Pipitone (poi assolto) non raccontò tutto
quello che sapeva. Ma quella volta — racconta la sentenza — il boss aveva
convocato il genero prima dell’udienza, minacciandolo.
«Ora questa decisione condanna Lia due volte» , dicono gli avvocati della
famiglia, Paolo Giangravè, Marcello Assante e Giuliana Vitello, che si sono
opposti al provvedimento del Viminale. E all’Acquasanta, il nome di questa ragazza
che sognava la libertà è ancora scomodo: non c’è neanche una lapide a ricordare
il suo sacrificio.
La Repubblica Palermo, 5 luglio 2020
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