Fabrizio Barca |
di LUCIA PIERRO e MARCO SCARPINATO
Intervista a tutto campo al coordinatore del Forum
Disuguaglianze e Diversità: sviluppo locale, aree interne, redistribuzione di
opportunità e accesso alla conoscenza, ruolo degli architetti e geopolitica
mediterranea
Fabrizio
Barca (nella foto di copertina di Lucio Colavero), 66 anni, statistico ed
economista, è stato dirigente di ricerca in Banca d’Italia, responsabile di
previsioni macroeconomiche, indagini e progetti sugli assetti proprietari delle
imprese e Capo dipartimento della politica pubblica per lo sviluppo nel
Ministero Economia e Finanze. Come presidente del Comitato OCSE per le
politiche territoriali e advisor della Commissione Europea, ha coordinato
amministratori pubblici e studiosi per definire il place-based approach volto a intervenire nei territori in ritardo di sviluppo. È
stato Ministro per la Coesione territoriale nel Governo Monti 2011-13. Ha
avanzato la proposta “Luoghi ideali per riformare i partiti”.
Ha insegnato in
università italiane e francesi ed è autore di saggi e volumi fra cui: Some
Views on US Corporate Governance (Columbia Business Law
Review, 1998); Il capitalismo italiano. Storia di un
compromesso senza riforme (Donzelli, 1999); The
Case for Regional Development Intervention. Place-Based versus Place-Neutral
Approaches (Journal of Regional Science, 2012; con P. McCann e A.
Rodriguez-Pose); La traversata. Una nuova idea di partito e di
governo (Feltrinelli, 2013); Cambiare rotta. Più
giustizia sociale per il rilancio dell’Italia (Laterza, 2019); Un
futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale (Il Mulino, 2020; con Patrizia Luongo). Barca oggi coordina
il Forum Disuguaglianze e Diversità, un luogo
di pensiero e confronto nato nel febbraio 2018 per informare, discutere e
disegnare politiche pubbliche e azioni collettive che riducano le
disuguaglianze, aumentino la giustizia sociale e favoriscano il pieno sviluppo
di ogni persona. Durante il lockdown e in questa fase di ripartenza, attraverso
il Forum, Barca ha elaborato e condiviso numerose proposte per affrontare la
crisi Covid-19; per questo gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua visione.
Quali
sono i rischi e le opportunità in questa fase di ripartenza?
Come è
avvenuto in altre recenti catastrofi, rischiamo l’aumento delle disuguaglianze
distribuite lungo le faglie territoriali. Dopo l’uragano Katrina la politica ha
aumentato le disuguaglianze e aperto la faglia agli ultimi perché ha curato il
ceto medio invece dei più poveri. Il rischio è quindi che le politiche
sbagliate aumentino le diseguaglianze. L’opportunità è in una serie di fattori:
abbiamo acquisito consapevolezza dell’entità delle disuguaglianze e capito ciò
che conta e non conta; è in atto un cambiamento di preferenze verso servizi e
cibi di qualità, l’energia autoprodotta, la cura e l’assistenza delle persone
più fragili. Questa consapevolezza può attivare processi interessanti in campo
sociale e nel mercato. Malgrado il rischio di concentrare ulteriormente la
conoscenza in poche mani, anche l’accelerazione digitale dà l’opportunità di
costruire ponti e mutualismi, fungendo da complemento del contatto umano.
C’è
differenza tra la strategia aree interne e le strategie di sviluppo rivolte ai
luoghi elaborate dal Forum?
Adotto un
termine che usiamo con Riabitare l’Italia e torno alle faglie per dire
che esse toccano sia le aree interne sia le altre aree marginalizzate,
soprattutto periferie urbane e campagne de-industrializzate. In autunno ci sarà
un momento critico per le nostre piccole e medie imprese e rischiamo
l’emergenza in tutte le aree che si trovano in una “trappola del
sottosviluppo”, cioè in una condizione economico-sociale in cui le forze
endogene della democrazia e del mercato non sono sufficienti perché non c’è
abbastanza voce e conflitto, o non c’è sufficiente concorrenza e creatività. La
strategia per intervenire in questi luoghi non è il neoliberismo che finge di
parlar male dello Stato per indebolirlo e crea continuamente diseguaglianze
perché eroga sussidi di vario genere per compensare i danni e, tenendo buona la
gente, blocca il processo democratico. Per questi luoghi serve
l’approccio place-based, che combina forti
indirizzi strategici nazionali, sceglie le priorità, indica alcuni criteri
fondamentali ma lascia aperta l’applicazione territoriale. Quest’approccio non
è localista, perché combina i saperi locali con quelli dei grandi centri di
competenza (imprese pubbliche, università, grandi laboratori e impresa privata)
e li fa dialogare paritariamente. Il 24 luglio con le città di Milano, Bologna,
Napoli e Palermo, l’area interna di Sangro Aventino e un pezzo del Politecnico
di Milano presentiamo una proposta per usare una parte delle risorse che
saranno varate con questo metodo, senza ricorrere a sussidi e grandi opere.
In che
modo la strategia aree interne può contribuire alla riattivazione del Paese?
Le aree
interne, più di altre, sono state colpite dal neoliberismo e dall’errata idea
che la libertà delle persone consista nel potersene andare. Come direbbe Albert
Hirschman, si trovano in una condizione di exit e non
di voice, e non c’è quindi democrazia. In queste aree il
calo demografico annuo è tra 0,5 e 1% e il capitale sottoutilizzato che c’era
prima della pandemia oggi è ancor più significativo perché la domanda sta
cambiando: è aumentata la preferenza verso le aree rarefatte e anche tra i giovani
si rafforza l’idea di andarci a vivere. C’è però il rischio che la domanda sia
contrastata dalle forze conservatrici dei territori. Lanciammo la strategia
“aree interne” sette anni fa; oggi le difficoltà non dipendono dai territori ma
dai partiti, da autorità di governo e da una parte della cultura nazionale che
assecondano quei conservatori del territorio che non vogliono cambiare perché
vogliono i soldi della compensazione neoliberista. L’altro rischio è che vi sia
un’operazione coloniale come quella che ha determinato l’inaridimento di molte
metropoli. C’è chi pensa vi siano delle intelligenze – non importa se
burocrati, tecnocrati, economisti o architetti – che sanno tutto e possono
quindi disegnare tutto ciò di cui le persone hanno bisogno. Anche figure
illuminate e progressiste hanno fatto gravissimi errori: penso alla
ricostruzione post terremoto siciliana e ad esempi che gli architetti conoscono
bene. Potrebbe ripetersi un rapporto negoziale improprio tra i centri di
competenza (banche, studi professionali, ecc.) e i territori, mentre invece un
rapporto paritario place-based è
la condizione necessaria affinché il rilancio delle aree interne non diventi
neocolonialismo.
Come si
fa partecipazione?
Nel
metodo place-based la partecipazione non aggiunge
consenso ma estrae saperi dai territori. Occorre quindi garantire i quattro
requisiti descritti da Amartya Sen: il confronto deve essere accesso e ognuno
deve dire la sua, deve essere aperto ai pensieri esterni, deve essere informato
e, infine, deve essere empatico e ragionevole. Altrimenti la partnership
diventa un meccanismo procedurale volto a mascherare i processi decisionali che
in realtà continuano a esser presi nelle stesse stanze dagli stessi di sempre.
Anche i comitati di monitoraggio dei fondi comunitari, che sono un’opportunità
straordinaria, possono diventare una copertura attraverso documenti non
comprensibili e non discussi. Un’altra difficoltà è che, a parte il comparto
scolastico, di solito le donne non sono rappresentate, ugualmente non hanno
voce i migranti che spesso costituiscono il 7-9% degli abitanti delle aree
interne. La rappresentanza è cruciale per non indebolire e colonizzare i
territori. Per questo serve molta comunicazione, molta trasparenza e serve un
presidio nazionale che trascorra molto tempo sui territori. A riguardo, ritengo
che la strategia aree interne sia stata indebolita proprio dall’indebolimento
del team nazionale che, nei primi tre anni, aveva fatto quarantamila chilometri
e speso un importante pezzo di vita sui territori.
Che
cosa contiene il Promemoria per il dopo Covid-19
in Italia?
Intravediamo
tre scenari. Uno è quello del ritorno alla normalità e chi lo sostiene dice che
sarà bello, digitalizzato, progressivo, contro le disuguaglianze. Però,
mantenendo invariati i meccanismi di welfare e imposizione, questo scenario
spreca solo denaro perché non incide sui meccanismi di formazione della
ricchezza. Per questo scenario la digitalizzazione può a priori migliorare le
cose, ma non è così e penso allo smart working che, senza una riorganizzazione,
produce forme di lavoro atomizzato e, come abbiamo visto nel caso delle donne,
aggrava le fragilità. Serve chiarire come fare smart working e per questo, in
alternativa alla concentrazione in azienda e all’isolamento del lavoro da casa,
proponiamo una rete di officine municipali.
Il secondo scenario è che s’inaspriscano i risentimenti già presenti prima
della pandemia e che, passato il momento della coesione nazionale, si usi la
rabbia delle persone per alimentare uno statalismo autoritario in cui
l’approccio neoliberista assoluto del mercato si combina con iniziative
liberticide dei diritti, con la costruzione di sanzioni, con l’uso del digitale
per ridurre le libertà personali, con la creazione di falsi nemici e la
costruzione di muri. Rischiamo quindi la ripresa di quell’autoritarismo che s’è
delineato drammaticamente negli Stati Uniti. Il terzo scenario prende atto che
le diseguaglianze c’erano già prima e non erano il frutto della tecnologia,
della globalizzazione, della società liquida o di altre scuse ipocrite, bensì
erano il frutto di scelte politiche che oggi possiamo invertire cambiando la
politica del mercato, del welfare, della conoscenza e basandoci su due
giustizie fondamentali: quella sociale e quella ambientale. Declinare la
“libertà sostanziale sostenibile” di Sen nella nostra Costituzione significa
promuovere la libertà di pieno sviluppo della persona umana senza ridurre quella
delle generazioni future. La “libertà sostanziale sostenibile” è il metro di
riferimento delle politiche, sapendo che non è la crescita che produrrà
uguaglianza ma, al contrario, è l’uguaglianza che produrrà crescita. Questo
significa far derivare la crescita dal perseguimento di obiettivi di giustizia
sociale.
Può
parlarci del volume Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale?
Con Patrizia Luongo raccontiamo sia quel che c’era un anno fa, sia quanto è
appena successo, spiegando le due parole chiave per un futuro più giusto:
accedere ai saperi e trasferire i poteri. Accedere ai saperi significa
sia scatenare e valorizzare le intelligenze che si trovano nei grandi luoghi di
formazione della conoscenza del nostro Paese (università, scuola e imprese
pubbliche), sia valorizzare i saperi diffusi nei territori. Trasferire i poteri
è fondamentale per ridurre le diseguaglianze; servono quindi interventi a
favore del lavoro e dei giovani, perché una società funziona se tutti hanno
voce. Oggi i giovani hanno scarsa rappresentanza, e questo innesca un
meccanismo a catena; scarsi salari costringono a posporre le scelte di vita,
abbassa i tassi di fertilità, quindi è un circolo vizioso che incide sul futuro
del Paese. Il trasferimento di potere va fatto sia tramite l’istruzione, sia
tramite un reddito che dia a tutti le stesse condizioni di partenza.
Tra le
«15 proposte per la giustizia sociale» elaborate dal Forum Disuguaglianze,
quale ritiene più urgente?
La più urgente è anche la più facile, perché si farà comunque: l’assunzione
di 500.000 giovani nella pubblica amministrazione che sostituiranno chi è
entrato negli anni ’70, ovvero il 15% della forza lavoro. Se verrà fatta male
sarà un disastro per il Paese, perché senza una pubblica amministrazione
funzionante siamo fermi. Già ora stanno avvenendo assunzioni alla chetichella o
con bandi che richiedono competenze vecchie. Serve invece che i giovani siano
selezionati bene e che non siano abbandonati a se stessi appena entrano nella
pubblica amministrazione; occorre fare mentoring, come
avviene in tutte le imprese del mondo; inoltre occorre dar peso alle competenze
organizzative e non solo a quelle disciplinari.
Come
risolvere il divario digitale nel nostro paese?
Chiarisco che il divario non riguarda solo la copertura di rete ma,
soprattutto, la consapevolezza dei benefici e malefici insiti nel digitale. Ad
esempio è comodo comprare su Amazon ma non tutti capiscono il potere
monopolistico che gli diamo con quell’acquisto. Occorre quindi promuovere
consapevolezza di massa sui rischi del digitale. Un altro punto è il ruolo
delle piattaforme digitali territoriali: l’Italia ha la chance di costruire una
piattaforma pubblica, poiché basterebbe integrare le piattaforme delle sue
imprese pubbliche come Poste Italiane, Ferrovie dello Stato e Pago PA. Una
piattaforma digitale pubblica ci serve sia perché non è ammissibile che
l’energia elettrica sia erogata sulla base di dati e algoritmi che viaggiano
sulla piattaforma Amazon, sia perché non è accettabile il ritardo
nell’erogazione dei sussidi della cassa. Il terzo punto è che, seguendo
l’esempio di Barcellona, Amsterdam e Bologna, le piattaforme collettive siano
messe a disposizione per la trasparenza dei processi decisionali a tutela delle
condizioni di lavoro e per disegnare la mobilità in un’ottica place-based. Con una tecnostruttura digitale comunale
significativa, possiamo infatti rendere pubblici i dati sulla mobilità e avere
uno strumento per attuare la collaborazione dei cittadini. Questo non è né lo
statalismo digitale cinese né il corporate privato
americano, ma apre una terza via.
Come
immagina il mondo dell’istruzione nel futuro?
L’accesso alla conoscenza è la chiave per superare le fasi di rottura della
storia, quindi è evidente che l’istruzione è un tema fondamentale. Una priorità
è la battaglia place-based contro la povertà
educativa, su cui il Forum si sta impegnando con altri nove componenti tra
reti, organizzazioni e associazioni che si occupano di scuola. Abbiamo redatto
un manifesto per
chiedere di affrontare il tema della povertà educativa con un approccio
territoriale, senza lasciare sola la scuola e coinvolgendo famiglie,
carabinieri, imprese del territorio, organizzazioni di cittadinanza attiva e
associazioni. L’altro fronte riguarda l’università: il Forum è impegnato in un
gruppo di lavoro con i rettori istituito presso il Ministero dell’Università,
per analizzarne l’impatto sociale. Tra ciò che già è stato prodotto ci sono
progetti per incentivare lo studio nelle carceri, progetti per i migranti,
progetti per recuperare nei primi mesi d’università il buco formativo dovuto ai
divari nella scuola dell’obbligo, progetti per curare la conoscenza permanente.
Parliamo anche della piccola impresa, che è un pezzo fondamentale nel nostro
Paese e ha quell’imprenditorialità istintiva che è nella carne nazionale.
Spesso però manca la conoscenza, e per compiere il necessario salto tecnologico
occorre un trasferimento alla tedesca come la Fraunhofer-Gesellschaft. Bisogna
trasferire conoscenze e nel Forum diciamo che bisogna riconoscere un ruolo alle
università che lavorano in questo senso, perché oggi nella valutazione si
premia solo chi fa brevetti o vende biglietti dei parchi archeologici, come si
legge per esempio nel VQR della valutazione della
Terza missione. Serve cambiare e, senza inventarsi da Roma cosa è
giusto, occorre riconoscere e valorizzare ciò che avviene sui territori, per
questo abbiamo costruito una mappa con le università che inizialmente erano 23
e ora sono 35 e abbiamo prodotto due grandi carte tematiche.
Come
gli architetti possono aiutare a costruire un “futuro più giusto di prima”?
Da sviluppista locale ho molto interagito con la vostra professione:
architetti che curano il paesaggio, che danno senso e qualità estetica e
funzionale agli edifici, che curano i rifacimenti di borghi e periferie, che
s’impegnano nell’urbanistica. Ho incontrato architetti che si sono così
innamorati della conoscenza territoriale da diventare essi stessi sviluppisti
locali, ma ho anche incontrato architetti così legati alla propria cassetta
degli attrezzi da auto-raccontarsi di sapere cosa serve senza attivare processi
partecipativi; o altri che pensano che i processi partecipativi siano fare “una
cosa” web in cui raccogliere qualche osservazione, far vedere foto,
dimostrare che sono avvenuti incontri; e mi viene in mente “giro, vedo gente,
mi muovo, conosco, faccio delle cose” di Nanni Moretti. Credo invece ci sia
grande spazio per gli architetti che usano la loro straordinaria, meravigliosa
cassetta degli attrezzi con l’orgoglio delle proprie competenze specialistiche
e la consapevolezza dei limiti di ciascun sapere. Per capire cosa si può fare e
cosa serve a un territorio servono continui confronti e, quando c’è,
quest’interazione esprime l’incredibile forza del vostro specialissimo
mestiere.
Qual è
il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo e come dobbiamo confrontarci con questo
mondo che si sta agitando e di cui, in realtà, sappiamo poco?
Non credo che la proiezione dell’Italia sia nel Mediterraneo. Lo dico
sinceramente perché, ad esempio, Napoli è una città che ha grandi rapporti con
Stati Uniti e Gran Bretagna. Il Mediterraneo è complicato, destabilizzato,
autoritario e l’idea che il destino del Sud Italia sia questo mi pare uno slogan
milanese per staccare la spina. Credo invece alla comunanza della cultura e
alla potenzialità del nostro Paese che, per via della sua rugosità, è sempre
stato capace di accogliere. Serve accogliere non solo per compensare
meccanicamente i nostri bassi tassi di fertilità, ma perché abbiamo bisogno di
arricchirci e rigenerarci culturalmente. L’Italia sa accogliere perché l’ha
sempre fatto con gli Arbëreshë, i Grecanici, gli Occitani, i Ladini. L’Italia è
un coacervo straordinario di culture che permangono e sono un regalo della
storia. Credo al cosmopolitismo parziale del filosofo africano Appiah, cioè
cosmopolitismo nel sentire gli altri come fossero me ma, al contempo, forza dei
rapporti fiduciari con i membri della propria comunità. La foto potenziale
dell’Italia migliore è fatta da comunità territoriali che sentono la propria
forza e si aprono. A questo bisognerebbe aggiungere la politica della
cooperazione, perché da tempo al Ministero degli Esteri ci s’appoggia sui
singoli senza che ci siano soldi e idee. Circa l’azione sul territorio, penso a
uno dei nostri otto associati: la Fondazione Comunità di Messina che è
proiettata nel Mediterraneo e combina privato sociale e pubblico costruendo una
rete con fondazioni dei paesi africani. Quest’approccio dimostra che si può
fare cosmopolitismo parziale.
22 Luglio 2020
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