di GIANFRANCO MARRONE
Uno studio su riti e ambiguità possibili delle
processioni religiose in bilico tra l’esibizione di forza e di fede e l’omaggio
ai boss
Nel luglio 2014, presso il mercato
palermitano di Ballarò, la processione per la Madonna del Carmine viene fatta
fermare di fronte la casa di un noto boss mafioso in carcere al 41-bis. In
segno di deferenza verso il malvivente la statua si inchina. Nel dicembre
dell’anno successivo a Paternò, in provincia di Catania, in occasione della
processione per Santa Barbara, mentre la banda intona la celeberrima colonna
sonora del "Padrino", due piccole "vare" si bloccano
davanti alla casa di un boss locale "annacandosi" ripetutamente. Il
figlio del boss si mostra alla finestra salutando soddisfatto.
L’anno ancora
dopo a San Michele di Ganzaria, nei pressi di Caltagirone, durante la Settimana
santa il fercolo del Cristo morto viene fatto deviare dal percorso stabilito
della processione per sostare dinnanzi l’abitazione del capomafia del paese.
Parroco, sindaco e carabinieri, indignati, abbandonano il rito. Ancora, nel
giugno del 2016 la "vara" di San Giovanni Evangelista si blocca sotto
casa di Totò Riina per omaggiare la moglie del boss affacciata al balcone.
Apriti cielo.
Ecco un elenco assai parziale di alcuni episodi riportati dai giornali dove
sono protagonisti gli inchini delle statue ai boss mafiosi e alle loro
famiglie. Accaduti in Sicilia e non solo, si tratta di casi che hanno fatto
molto discutere, se non furiosamente litigare, i vari attori sociali che ne
hanno preso parte, direttamente o indirettamente: confraternite, parrocchie,
forze dell’ordine, amministratori, commentatori vari, studiosi e, manco a
dirlo, esponenti della criminalità organizzata. L’annacata, è stato ricordato,
è gesto rituale antico e diffusissimo (ben oltre l’Isola) dal duplice
significato: producendo artificialmente un effetto di movimento, le statue sembrano
animarsi, agire, danzare, esprimersi; così facendo, i portatori della
pesantissima "vara" proclamano pubblicamente tutta la loro forza
taurina, come dire mascolina. L’ambivalenza del gesto fa presto a trasformarsi
in ironico sberleffo, così come in generale l’inchino, del resto, si presta a
molteplici usi sociali: sottomissione o bilanciamento?
Come distinguere allora la tradizionale "annacata" della
devozione folklorica dal più mellifluo inchino ai potenti per giunta
malavitosi? Come separare un afflato religioso sincero dall’odiosa
subordinazione alle logiche dalla mafia? E, soprattutto, sino a che punto è
possibile tenere distinte fede popolare, ritualità festiva, criminalità, prassi
politica e progettazione della sfera pubblica?
Sono gli interrogativi che si è posto l’antropologo messinese Berardino
Palumbo nello scrivere l’importante, denso e problematico libretto "Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose", appena uscito
dall’editore Marietti (pagine 169, 13 euro). Per rispondere Palumbo
mescola con cura sottili argomentazioni teoriche circa il costituirsi complesso
delle identità culturali con una serie di studi di caso, come dire di
racconti di vita vissuta, sia individuali che collettivi.
L’idea di fondo è tanto semplice quanto decisiva: l’inchino
delle statue sacre ai malavitosi assume significati molto diversi a
seconda dei contesti culturali in cui ha luogo. Così, piuttosto che parlare
genericamente di una religiosità degradata, spuria, inautentica che diviene
funzionale alla criminalità organizzata, se si vuole comprendere a fondo questo
genere di fenomeni – e dunque meglio condannarli – occorre abbandonare le
nostre comode distinzioni (tipiche della modernità, e tutt’altro che
universali) tra religione, politica, violenza, criminalità, cittadinanza.
Le culture in cui l’inchino rituale viene praticato sono le stesse in cui,
sottolinea Palumbo, la gente si autoflagella sino allo sfinimento o lecca il
pavimento che conduce all’altare. Troppo facile, per noi, dire che si tratta di
superstizioni irrazionali, di residui di riti pagani o, che è lo stesso, di
supino asservimento alla criminalità organizzata. La mafia, certo, si insinua
tatticamente tra le pratiche religiose a suo uso e consumo. Ma queste ultime
hanno da sempre utilizzato la fede per strutturare l’ordine sociale, dandogli
un’organizzazione, un’arena polemica, e perciò un senso. Appartenere a una
parrocchia vuol dire avere una precisa identità, la quale si costituisce in
opposizione alle parrocchie degli altri. Così a Catalfàro, sugli Iblei, essere
"marianese" (devoto alla Madonna delle Grazie) vuol dire non essere
"nicolese" (devoto a San Nicolò). E viceversa. Non c’è niente da
fare, le conventicole incidono in profondità nell’animo umano, costi quel che
costi.
Va in questo senso la storia di Zi’ Mariano, umile e amabile lavoratore che
da Catalfàro emigra a Torino in cerca di fortuna, senza mai perdere il suo
senso di appartenenza alla parrocchia del paese natìo. Al quale fa ritorno in
età avanzata, riprendendo a frequentare la confraternita della Madonna delle
Grazie. Così, non appena la Curia prova a riformare la procedura della
processione pasquale, non esita a menare il parroco. Violenza? Certo, secondo i
nostri parametri illuministi. Secondo i suoi, desiderio di proteggere la
propria devozione, di mantenere fede a un progetto di vita. Ciò non significa,
e Palumbo lo sottolinea più volte, giustificare alcunché. Anzi. Vuol dire
semmai misurare la distanza che ci separa da un mondo che, volenti o nolenti, è
pur tuttavia ancora il nostro.
A Messina, pochi anni fa, hanno spostato il tracciato del tram per non
ostacolare il percorso della " vara" dell’Assunta che si tiene da
secoli il 15 di agosto. Un inchino alla Madonna o una furbata per mal
nascondere gli interessi di un gruppo imprenditoriale colluso con la mafia?
Domanda mal posta: le due cose insieme.
La Repubblica Palermo, 21 luglio 2020
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