Il Memoriale di Abramo Lincoln |
di Federico Rampini
Non distruggete il Memoriale di Abraham Lincoln". L’appello sul Washington Post può stupire chi non vive di questi
tempi negli Stati Uniti. È proprio così, la campagna di rimozione delle statue
minaccia anche il presidente che vinse la guerra civile contro gli Stati del
Sud e spianò la strada all’abolizione dello schiavismo. A scendere in campo con
quell’appello accorato è David W. Blight, storico dello schiavismo, biografo di
uno dei massimi esponenti della cultura afroamericana, Frederick Douglass. Per
salvare dalla distruzione il Freedmen’s Memorial di Washington, lo storico
ricorda le circostanze in cui quel monumento venne inaugurato nel 1876.
Per
costruirlo si erano auto-tassati gli afroamericani. Il loro leader Douglass
tenne il discorso dell’inaugurazione, che si può rileggere oggi come un
capolavoro di equilibrio e lucidità storica: vedeva tutti i limiti di Lincoln,
ma ne riconosceva la grandezza. Douglass oggi verrebbe zittito nelle
manifestazioni di piazza: troppo moderato? Anche i discorsi di Martin Luther
King e Barack Obama sulla questione razziale oggi non sarebbero
più politically correct. Quel che conta nel 2020 è l’immagine: il
Freedmen’s Memorial rappresenta Lincoln eretto, mentre un ex schiavo nero è
ancora in ginocchio davanti a lui, nell’atto di liberarsi delle catene. Orrore.
Che una "gerarchia razziale" sia esistita nella storia degli Stati
Uniti — imposta con la violenza, dopo la tratta di carne umana dall’Africa — è
un dato di fatto.
Che ne restino delle tracce nel paesaggio architettonico, è un’offesa che
si può cancellare per sempre, "purificando" il paesaggio? La furia
iconoclastica della piazza americana è solo un pezzo di una vicenda più ampia e
inquietante. Un’altra faccia del fanatismo è la caccia alle streghe nelle
redazioni: giornali e soprattutto social media, dove chi non è allineato con il
nuovo movimento può essere linciato via Twitter, poi perdere il posto.
La stessa logica che oggi minaccia la memoria di Lincoln ha già fatto due
vittime statuarie nel campo progressista. A New York il Museo di Storia
Naturale ha rimosso Theodore Roosevelt. Fu un ambientalista, pioniere dei
parchi naturali. Fu un nemico dei grandi monopoli capitalistici. Non importa:
la statua lo raffigurava a cavallo, attorniato da un indiano e da un nero a
piedi, razze inferiori. Tali si consideravano, nel contesto del primo
Novecento. Anche in questo caso: la storia non va studiata, va disinfettata.
All’Università di Princeton cancellano ogni traccia di colui che vi ebbe
incarichi importanti: Woodrow Wilson. Da presidente lanciò l’America nella Grande
guerra contro l’aggressione del Reich; fu un internazionalista, volle fondare
l’antenata dell’Onu; predicò l’auto-determinazione dei popoli, contro gli
imperialismi inglese e francese. Ma era un uomo del Sud, troppo vicino a quella
cultura, e perpetuò la segregazione razziale nella pubblica amministrazione.
Deve scomparire. Un altro storico dello schiavismo, Sean Wilentz, osserva con
amarezza: «Possiamo onorare — e disonorare — i leader americani del
passato, senza trasformare la storia in una favola semplicistica del bene
contro il male». Vale per tutti.
Dopo Cristoforo Colombo sterminatore degli indiani, un giorno toccherà a
Dante Alighieri islamofobo perché mise Maometto all’Inferno? Strano che
resistano a Central Park le statue dei personaggi di Lewis Carroll: l’autore
di Alice nel paese delle meraviglie era un pedofilo. Restando sulla
questione razziale: a quando il revisionismo sulle responsabilità del mondo
arabo, per secoli il grande profittatore della tratta? O sulla storia degli schiavismi
nelle civiltà pre-colombiane; e in Asia?
Contro il furore delle piazze dove comanda la sinistra più radicale, Donald
Trump diventa il protettore delle statue.
Minaccia pene severe contro chi le demolisce o le deturpa. Si erge a
difensore della memoria, lui che non ha mai letto un libro (e se ne vanta). Non
fa distinzioni tra i padri della patria e i generali sudisti che combatterono
per difendere lo schiavismo. Ogni volta che il presidente parla, rafforza i
sospetti sulla sua simpatia verso i suprematisti bianchi. Ma di fronte a Trump
c’è un’immagine a lui speculare: opposta, antagonista, altrettanto faziosa e
intollerante. George Will sul Washington Post denuncia
"l’uragano isterico" che nella storia "bianca" degli Stati
Uniti vede solo una galleria di orrori dalla fondazione. La folla inferocita è
guidata da un’intellighenzia accademica dove impera la "cultura della
cancellazione": ciò che offende questa o quella minoranza deve sparire.
Quello che David Brooks sul New York Times chiama il movimento della
Giustizia Sociale, secondo lui non ha alcun programma politico degno di questo
nome. Tagliare i fondi alla polizia non è una proposta positiva per il dramma
economico e sociale della pandemia, che infierisce più duramente su neri e
ispanici. Com’è tipico di un movimento nato nei campus universitari, è
ossessionato dai simboli, dai gesti. Adora le celebrity del football che
s’inginocchiano, venera i rapper milionari che insultano la polizia
(scordandosi che nei loro testi domina un sessismo spaventoso). Gioisce per il
trionfo delle campagne di boicottaggio contro Facebook, senza ricordare quante
volte le multinazionali hanno spostato i loro budget pubblicitari da un media
all’altro per omaggiare l’atmosfera politica del momento. I pasdaran della
rivoluzione culturale americana sono anche tagliatori di teste. Il direttore
delle pagine dei commenti del New York Times è stato la vittima più
illustre, per aver osato ospitare l’articolo di un senatore repubblicano che
voleva le truppe in piazza contro i saccheggi. «Ha messo in pericolo la vita
dei neri che lavorano al New York Times», è stata la sua sentenza di
condanna. Molti altri, meno noti, hanno perso il posto di lavoro: un’ecatombe
da epurazione ideologica, ricostruita da Jonathan Chait sul New York
magazine. Basta un tweet di un collega più ortodosso, e la stessa accusa:
chi non sta con noi, attenta alla nostra vita.
La Repubblica, 30 giugno 2020
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