Emanuele Macaluso |
Fu «un’occasione in gran parte mancata». Una legge «più avanzata di quella
nazionale» che però fu «affossata dai ricorsi» e dalle contromosse della
Democrazia cristiana. Settant’anni dopo la riforma agraria, però, per Emanuele
Macaluso quell’epoca costituì le fondamenta per la costruzione del ceto
intellettuale che animò la cultura della Sicilia nei decenni successivi e
garantisce tuttora una certezza economica dalla quale ripartire: «Adesso che le
industrie sono ridimensionate – osserva l’ex leader della Cgil e del Pci –
l’agricoltura è l’unica base solida dell’economia siciliana. E lo è
proprio per quel processo avviato con la lotta per la terra».
In Sicilia, del resto, la riforma agraria ebbe una marcia diversa.
Ex post si sarebbe potuto fare meglio?
«La nostra riforma era più avanzata di quella nazionale.
Aveva messo un limite di 200 ettari alla proprietà e aveva quindi un
contenuto sociale e politico molto più forte. L’assessore all’Agricoltura,
all’epoca, era Silvio Milazzo, e quella legge fu fatta nel corso di una lotta
per l’occupazione delle terre con morti, feriti e carcerati. Tuttavia la
riforma agraria in Sicilia, e poi anche in Italia, non poté dare una risposta
alle esigenze di questo bracciantato senza terra. Che qui era diverso».
Diverso in cosa?
«Non erano braccianti a giornata: erano contadini poveri che la mattina
andavano nei feudi, lavoravano, avevano un pezzo di terra in affitto e poi
tornavano in questi grandi centri agricoli».
Perché non si poté dare una risposta alle loro esigenze?
«Perché la legge non fu attuata a causa dei ricorsi dei grandi avvocati.
Imbastirono per anni una lunga battaglia: fra loro c’era ad esempio il padre
dell’attuale sindaco di Palermo. E poi bisogna tenere conto del fatto che in
quegli anni c’era un governo di centrodestra, quello di Franco Restivo, che
durò fino al 1955».
Fu dunque un’occasione mancata?
«In gran parte, anche se una certa redistribuzione della terra ci fu. La Dc
organizzò la vendita delle terre, con la formazione della piccola
proprietà contadina: alla fine il risultato arrivò, in parte, anche se spendendo
molti soldi pubblici».
Fu per questo elemento meramente economico che secondo lei si modernizzò
l’agricoltura?
«Non solo. La lotta per il bracciantato, soprattutto nel Ragusano,
rivendicò anche la trasformazione delle terre: le coltivazioni passarono da
seminativo estensivo al frutteto estensivo, e nella parte sudorientale della
Sicilia furono introdotti il pomodoro e la coltivazione a tendone. Combattevamo per la modernizzazione, non solo per i diritti».
Con un prezzo di sangue non indifferente, a Portella della Ginestra come
altrove.
«La lotta per la terra cominciò nel 1944. La più clamorosa fu l’ondata di
occupazione delle terre del 1946, ma poi le lotte ripresero anche nel 1949.
Durante quelle battaglie Pio La Torre fu arrestato a Bisacquino, io a Corleone.
La lotta fu molto dura, anche perché i nostri avversari erano i gabellotti che
lì si chiamavano Riina. Ci furono dei morti».
Appunto: Portella su tutti.
«Quello di Portella della Ginestra fu un segnale lanciato per bloccare il
movimento. Anche se la sparatoria fu materialmente fatta dalla banda di
Giuliano, ci fu un’istigazione, se non un ordine. L’obiettivo era bloccarci».
Non ci riuscirono. Tanto che lei, due anni dopo, fu arrestato.
«Era il 1949. Fui arrestato e rilasciato. La Torre, invece, fece sedici
mesi di carcere. Un commissario bugiardo disse che La Torre gli aveva dato una
bastonata. Falso, totalmente falso. Anche io fui processato e condannato, ma mi
diedero la libertà provvisoria. A La Torre no. Ma, appunto, nei feudi c’erano i
Riina e i Liggio. Nel Vallone, a Villalba e Mussomeli, c’erano Calogero Vizzini
e Giuseppe Genco Russo. Così la lotta per la terra si intrecciò fortemente con
quella contro la mafia. I mafiosi erano praticamente i proprietari».
La lotta si intrecciò anche con la costruzione di una classe politica di
grande levatura.
«Molti giovani intellettuali parteciparono alla lotta agraria. Quelle lotte, che avevano una refluenza anche a Palermo e a Catania, dove
ci furono grandi marce, diedero a queste città che erano separate dal feudo un
segnale importante: molta gente capì che c’era il problema della
modernizzazione e della fine delle feudalizzazione della Sicilia».
Un risultato, almeno questo, raggiunto?
«Oggi l’agricoltura è l’unica base attiva, l’unica vera fonte produttiva
della Sicilia. Quando io ero segretario della Cgil c’era il Cantiere navale con
5-6mila operai, c’era la Ducrot che faceva i mobili per i transatlantici,
c’erano la Omsa che faceva i carri ferroviari e l’Aeronautica sicula che
produsse qui il primo elicottero d’Italia, c’erano i mulini e i pastifici. Ora
l’industria è stata distrutta. L’agricoltura, invece, sopravvive. Ed è così grazie a quelle lotte. Grazie a quel sangue».
La Repubblica Palermo, 17 giugno 2020
Nessun commento:
Posta un commento