Umberto Santino |
UMBERTO SANTINO
Non finiamo mai di sorprenderci, eppure è un copione
che si ripete e spesso personaggi e attori sono gli stessi da molto tempo. Chi
parla e scrive di mafia pare che guardi con un occhio solo: ormai c’è la mafia
finanziaria, mercatista, manageriale, ed è morta e sepolta quella dei riti
arcaici; l’orizzonte è planetario e la mafia di borgata o non c’è più o è
soltanto un arredo folklorico dei quartieri periferici. E invece ci sono
insieme la mafia finanziaria dei grandi traffici internazionali e quella
tradizionale che bada a tenere sotto controllo il rione e il caseggiato. Il
management e la governance criminale vanno a braccetto con la punciuta, con il
bacio in bocca per consacrare un nuovo capo o reggente. Sciascia parlava di una
mafia dialettale sostituita da una mafia in lingua.
E invece convivono il
dialetto e la lingua. Un piede dentro la tradizione e l’altro nella modernità:
è l’identikit dei fenomeni di durata, che persistono nel tempo, proprio perché
sono un Giano bifronte.
Qualche anno fa nel villino in cui soggiornavano i Lo Piccolo, padre e
figlio, è stato trovato un foglietto con la formula di giuramento e una sorta
di decalogo di Cosa nostra. Si parla di comparaggi, si dice di non frequentare
taverne e circoli, di rispettare la moglie e non guardare le mogli degli
"amici nostri"e ci sono altri dettami di un galateo ancestrale e
casereccio. Una delusione per chi parla di "sistemi criminali", di
crimine "transnazionale", di piovre planetarie. La carta d’identità
di Cosa nostra è un ibrido di villereccio e postmoderno. Sembra una contraddizione,
una convivenza difficile se non impossibile, e invece è il segreto svelato di
una lunga sopravvivenza.
Tano Badalamenti è stato condannato a 45 anni di carcere come trafficante
intercontinentale di eroina ma alla radice della sua attività c’era la signoria
territoriale su un lembo di Sicilia in cui erano posizionati i laboratori di
eroina ed era sotto controllo l’aeroporto.
E questo vale pure per il rapporto con lo Stato e le istituzioni. La mafia
non avrà studiato Weber e le sue riflessioni sul gruppo sociale, il gruppo di
potere, il gruppo politico, lo Stato che pretende e riesce a ottenere il
monopolio della forza, ma ha un suo ordinamento, le sue norme, le applica e si
fa giustizia con le sue mani, non riconoscendo il monopolio statale della
violenza, e poi partecipa alle elezioni, contribuisce alla formazione delle
rappresentanze, condiziona politica e pubblica amministrazione, fa di tutto per
accaparrarsi denaro pubblico con appalti e subappalti, investe nell’economia
legale i capitali illegali, che a quanto pare non conoscono crisi e flessioni.
Diceva Paolo Borsellino: «Lo Stato e la mafia operano sullo stesso territorio:
o si fanno la guerra o si mettono d’accordo». E le guerre ci sono state, ci
sono state pure delle battaglie vinte come il maxiprocesso - a cui però ha
fatto seguito lo smantellamento del pool antimafia, una scelta scellerata - ma
troppo spesso a prevalere sono stati gli accordi. È in corso il processo
d’appello per la trattativa Stato-mafia, ma la trattativa è stata un episodio o
una storia, segnata da una sovranità con-divisa? Per arrestare Riina era
inevitabile, come sembra, la collaborazione di Provenzano? E per arrestare
Matteo Messina Denaro ci vorrà qualcuno che dirà come stanarlo? Ogni giorno si
legge: "il cerchio si sta chiudendo"; chi c’era ricorda che lo si
diceva anche ai tempi del bandito Giuliano, poi sappiamo cosa si è dovuto fare
per chiudere quel cerchio.
Anche quello che è accaduto e accade allo Zen mostra una mafia dal duplice
volto. Che manda un messaggio non difficile da decrittare: se volete che si
ponga fine al rosario degli assalti e dei danneggiamenti, gli unici che
possiamo darvi la garanzia della sicurezza siamo noi. Contrariamente a quello
che teorizzano gli accademici sulla mafia come «industria della protezione
privata», non c’è un rischio insito nel contesto sociale. È la mafia che
produce il rischio e vorrebbe imporsi come agenzia assicurativa.
Se non si è capaci di reagire a questa sfida, con la decisione necessaria,
sarà una sconfitta per le istituzioni ma pure per la società civile e in
particolare per l’associazionismo antimafia.
La Repubblica Palermo, 24 giugno 2020
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