di ANTONIO MOTTA*
Agostino Spataro ha pubblicato nel 2019 un raro (e singo-lare) libretto,
Sciascia e Guttuso, che ha in copertina come marchietto editoriale una
“civetta”, che fa subito pensare a Il giorno della civetta dello scrittore
siciliano. Singolare perché Spataro (deputato comunista quando regnava sul
partito Enrico Berlinguer) non è uno studioso di Sciascia, ma si muove con
equilibrio, con rispetto nel dipanare fili intricati di una stagione piena di
scintille. Ho fatto fatica ad averlo, essendo l’edizione stampata in pochissimi
esemplari, a cui si è aggiunta la difficoltà di averlo cercato, quando l’Italia
era in sofferenza e chiusa a causa del morbo.
Il libretto contiene due lettere
inedite: di Renato Guttuso a Leonardo Sciascia del 20 ottobre 1978 e di
Sciascia a Guttuso del 29 ottobre, finite tra le carte del fondo Paolo Bufalini
presso la Fondazione Gramsci di Roma. Tema delle due lettere L’affaire Moro,
che esce da Sellerio in ottobre e contemporaneamente da Gallimard a Parigi nel
1978. La data di pubblicazione è importante, perché Eugenio Scalfari (quando
ancora il libro non era stato pubblicato) su «La Repubblica» scrive un velenoso
j’accuse e non contento del primo, il 12 settembre firma un secondo articolo
dal tono inquisitoriale: Adesso Sciascia conosce la verità. La verità, secondo
Scalfari, era che le lettere di Moro non erano autentiche, ma scritte sulla
base di “veline” che gli passavano le Brigate rosse.
Di qui l’esortazione di Scalfari a pentirsi, come nei processi
dell’inquisizione: «Che infortunio, caro Sciascia, aver supposto e
affermato il contrario. Che temerario atto d’orgoglio pretendere di scrivere
un’opera di verità disprezzando non soltanto il comune buon senso, ma i dati di
fatto. E che peccato “mortale” attribuire, a chi affermava che il Moro delle
lettere non era lui, la colpa di averlo ucciso per la seconda volta. Aver preso
per autentica quella voce e su questa base aver costruito un castello di supposizioni
e di condanne, quella sì, è colpa grave. Onestà intellettuale vorrebbe che un
grande scrittore – conoscendo infine la verità – confessasse l’errore.
È chieder troppo a Leonardo Sciascia?». Il clamore suscitato dal pamphlet è
enorme: casalinghe, operai, sindacalisti, professori, avvocati scrivono a
Sciascia lettere di approvazione. Il 22 ottobre su «L’Espresso» egli,
rispondendo ai suoi detrattori, scrive: «Ad ogni lettera che apro mi sento
confortato, rassicurato. Vedo “un’altra Italia”: un paese libero, pensoso,
ansioso di giustizia, intento a cogliere la verità sotto gli orpelli della
menzogna».
La lettera del compagno Guttuso (a cui Sciascia era legato da un’amicizia
storica) è di qualche giorno prima. Guttuso è d’accordo con lui sull’autenticità
delle lettere, ma non assolve Moro: «Di questa dolorosa vicenda mi pare tu veda
solo un aspetto (anche se molto importante: il potere che uccide Moro. Ma Moro
è lui stesso il potere, lo è fino al momento del suo sequestro, e cerca di
continuare ad esserlo pur da prigioniero…». Il potere! Moro è il potere.
Per tutta la lettera: otto paginette fitte, scritte di getto, come se
fuggisse da una verità scomoda, del dramma di Moro, del prigioniero Moro, della
creatura che l’onda del male travolge, nulla di tutto questo c’è nella lettera.
Non un rigo sulle pagine di apertura dell’Affaire, con l’immagine delle
lucciole e il ricordo di Pasolini, che per primo si era scagliato contro il
potere democristiano, di cui Moro «era il meno implicato di tutti». La lettura di
Guttuso del pamphlet è ideologica: Sciascia nella fretta di scrivere il libro
salva Moro, ma il suo bersaglio è il P.C.I.:
«Tu sai il mio affetto per te, la mia stima illimitata, ma lo spirito
critico, le insoddisfazioni, le delusioni, i dubbi, non possono occupare tutto
lo spazio della tua libertà di giudizio e farti trovare il male “sempre e
dovunque” nei comunisti (nel P.C.I). Debbo dirti che questo fatto è causa di un
grande dolore… In conclusione, caro Leonardo, il nostro rapporto di amicizia
assomiglia a quello che avevo con Vittorini… Ti ho difeso quando ho creduto
giusto farlo, e ho taciuto quando dissentivo da certe tue posizioni (il libro
tuo su Moro, la tua necessità di scriverlo subito, si spiega e si collega con
quel tuo intervento che provocò la polemica con Amendola). Ma Vittorini
dissentiva senza mai diventare un “anticomunista quotidiano”. Vittorini però
credeva alla mia lealtà di comunista… Con te ho, a volte, l’impressione… che tu
sia amareggiato del fatto che io sono e resto, malgrado tutte le difficoltà, i
problemi, ecc. un comunista».
La risposta di Sciascia è ferma nel rintuzzare le accuse
dell’amico-inquisitore: «Voglio subito dirti che mi pare tu parta da che cosa –
chiede Sciascia a Guttuso –avrebbe dovuto fare un uomo di lettere, di pensiero,
se non difendere la verità?
Domanda terribile che egli rivolge non a un qualsiasi Guttuso, ma a Renato
Guttuso un punto di vista “pregiudiziato” nel giudicare L’affaire Moro.
Lo assumi come “politico”, mentre è un libro “religioso”. Tu dici – come
Scalfari – che è una prosecuzione della polemica con Amendola; e invece io sono
stato mosso a scriverlo dalla pietà per quell’uomo solo, abbandonato, tradito,
relegato in un solo grido di paura, di viltà». Che cosa – chiede Sciascia a
Guttuso – avrebbe dovuto fare un uomo di lettere, di pensiero, se non difendere
la verità? Domanda terribile che egli rivolge non a un qualsiasi Guttuso, ma a
Renato Guttuso, al grande artista, al senatore della Repubblica, che ha
ricevuto migliaia di voti dai compagni, dalla gente, dai giovani che avevano
“speranza”. Il tradimento della speranza, l’irriconoscibilità del partito, la
mancanza di coraggio della sua classe dirigente, l’esperienza a Palazzo delle
Aquile, ritornano con dolore in questa lettera. Il turbamento, la paura, lo
smarrimento, che non sono solo suoi ma dell’Italia, di quell’Italia che forse
non amava Moro, ma sentiva la sua morte come «un’offesa consumata contro di
loro», chiudono questa lettera. Si può immaginare quante volte Guttuso abbia
rigirato questa lettera tra le mani (lui che conosceva bene la serena
inquietudine del suo amico), perché dietro le parole di Sciascia in gioco
c’erano valori più grandi di quelli enunciati: «Io ho visto in esso [nel caso
Moro] i segni oggettivi che giustificano la mia paura (e non soltanto mia,
ripeto); e ad ogni giorno che passa, sempre più mi convinco di aver visto
giusto. Quel che leggo in questi giorni sui giornali, riguardo al cosiddetto
dibattito in parlamento, mi atterrisce: mai il parlamento italiano è stato così
esemplarmente negato alla verità, così negativo nei riguardi della verità, come
in questo momento.
Nemmeno il 3 gennaio del 1925. E tu sei un membro del parlamento. Ed ecco
che vengo così al punto dei nostri rapporti. Mi dici di avere a volte l’impressione
che io, nonostante la simpatia e l’affetto che ho per te, sia amareggiato dal
fatto che tu continui ad essere comunista. Posso assicurarti di no. Tu sei
comunista così come io non lo sono. Ho detto una volta, e mi è parso di
renderti omaggio nel tuo essere comunista, che tu sei roso dalla certezza come
io dal dubbio. Piuttosto, quel che mi amareggia di te è quel tuo non dare quel
che la gente da te
si aspetta: da te in quanto Renato Guttuso, da te anche in quanto
comunista. Se, per esempio, tu ti levassi in parlamento a dire che è indegno
trattare il popolo così come è stato trattato durante il caso Moro e fino ad
oggi, che gli italiani sono stanchi di sentire menzogne, che tutti siamo
ansiosi di verità e di giustizia, credi saresti meno comunista per questo? E
saresti comunista per come senti essere. E saresti Renato Guttuso."
* pubblicato sul
quotidiano "L'attacco" del 12 giugno 2020.
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