Matteo Messina Denaro
ritratto con la corona in testa:
il dipinto è nella casa della madre a Castelvetrano |
di SALVO PALAZZOLO
È un’allevatrice di Castelvetrano, figlia di un
capomafia morto suicida La procura voleva arrestarla, ma per il gip non ci sono
elementi sufficienti
L’ultimo mistero di Messina Denaro ha il volto
di una donna: si chiama Leonarda Furnari, la figlia di Saverio, un mafioso di
rilievo di Castelvetrano, morto suicida in carcere nel 1997. Le sue parole sono
finite nella rete di microspie disseminate dalla squadra mobile di Trapani e della
procura di Palermo nel regno del superlatitante: «La mafia è una filosofia di
vita — diceva — significa non farsi scapisare… e siccome tu cresci
con la filosofia di vita, per me essere figlia di mio padre è filosofia di
vita… dice, sono figlia di un mafioso, sono mafiosa… sono quello, possono dire
quello che vogliono… per me è una filosofia di vita, di testa…. Non è quella di
andarmi a fottere l’appalto di un altro, il terreno di un altro, la zona di un
altro».
Non farsi scapisare: «Farsi rispettare», traducono gli
investigatori della Mobile. Parole che valgono più di un trattato di sociologia
sulla mentalità mafiosa che ancora resiste, parole che la procura di Palermo
aveva posto a fondamento della richiesta di arresto per la donna, ritenendo
avesse un «rapporto privilegiato con il latitante Messina Denaro», hanno
scritto i pm.
Ma il giudice delle indagini preliminari Claudia Rosini ha ritenuto
diversamente: «Non sussistono sufficienti elementi per ritenere l’intraneità
dell’indagata a Cosa nostra».
E venerdì notte, nel corso del blitz in provincia di Trapani, le misure
cautelari sono scattate solo per due persone: Giuseppe Calcagno, 46 anni, e
Marco Manzo, 55, fedelissimi dell’anziano capomafia di Mazara Vito Gondola, lo
snodo del sistema di comunicazioni del latitante arrestato cinque anni fa.
Sono state eseguite anche diverse perquisizioni, i poliziotti sono tornati
nella casa di famiglia della Primula Rossa di Castelvetrano, in via Alberto
Mario, dove abita l’anziana madre.
Nel salotto, l’immagine del padrino in stile neorealistico, con una corona
in testa. Il padrino venerato, il padrino diventato un fantasma ormai dal
giugno 1993.
I terreni
Leonarda Furnari resta però indagata per associazione
mafiosa: «Ha uno strettissimo legame con il boss Vito Gondola», sostiene
l’accusa, che cita alcune intercettazioni. «Voleva accaparrarsi la proprietà di
due appezzamenti di terra che un imprenditore agricolo era in procinto di
acquistare». Per questa ragione, secondo la procura, l’allevatrice avrebbe
chiesto il sostegno di alcuni boss. «Riuscì ad ottenere la convocazione di
quell’imprenditore — si legge nell’ordinanza di custodia cautelare — innanzi ai
capimafia Antonino Marotta e Vito Gondola. Gli venne imposto di rinunciare
all’acquisto degli immobili». E poi fu l’allevatrice ad accaparrarseli.
Intanto, proseguivano gli incontri con Gondola: «Era sua figlioccia», ha detto
Lorenzo Cimarosa, il cugino di Messina Denaro che dopo l’arresto ha deciso di
collaborare con la giustizia. La procura valuta appello contro la decisione del
gip.
I messaggi
Fra i misteri di Trapani, una certezza c’è comunque: i pizzini di Matteo
Messina Denaro arrivavano nelle campagne fra Mazara del Vallo e Salemi. Questo
dicono le intercettazioni. Calcagno faceva da tramite fra Gondola e il resto
della catena bloccata cinque anni fa, costituita da Pietro Giambalvo e Mimmo
Scimonelli: era Gondola a ricevere i messaggi dal latitante, e ad inviare al
latitante. Ma non sappiamo ancora come.
«Ci vediamo alla mannara», diceva don Vito, che è morto tre anni fa. «Ho
una rinisca (una pecora, ndr ) buona — sussurrava un altro
favoreggiatore al telefono — quando vossia finisce di mungere
la scannamu». Sembrano usciti da un romanzo di Andrea Camilleri gli
uomini che proteggevano la latitanza di Messina Denaro. Allevatori che
parlavano in dialetto al servizio del padrino che è diventato l’emblema della
mafia 2.0. Adesso, l’ultima tranche dell’indagine, coordinata dal procuratore
aggiunto Paolo Guido e dai sostituti Gianluca De Leo e Giovanni Antoci, ricostruisce
le mosse di Calcagno e Manzo: il primo si occupava della rete di comunicazione,
il secondo dei collegamenti con gli altri mandamenti; Manzo è uno dei picciotti
del clan che nel 2008 incendiò la casa al mare del consigliere comunale
Pasquale Calamia. L’esponente del Pd si era permesso di chiedere a gran voce
l’arresto di Messina Denaro. «L’indagine è un altro duro colpo agli assetti
mafiosi nel territorio del latitante», dice Fabrizio Mustaro, il capo della
Mobile di Trapani che domani lascerà la Sicilia per un altro incarico, in
Toscana.
La Repubblica Palermo, 21 giugno 2020
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