NONUCCIO
ANSELMO
Finalmente sappiamo la verità sulla battaglia tra esercito regio e garibaldini che si svolse a Corleone nel 1860 e che sta alla base della corsa di san Leoluca. E’ proprio la verità: parola de “I nuovi vespri.it” online dell’indipendentismo siciliano, che lo afferma nel titolo. E a sua volta lo conferma Giuseppe Scianò, antico leader, che firma l’articolo. E’ talmente vera questa verità che sparisce perfino San Leoluca, che gli sprovveduti corleonesi portano di corsa in processione per l’occasione da centosessant’anni, senza sapere la verità: il presunto miracolo – afferma Scianò - è della Madonna delle Grazie, che qui va in festa solo tre mesi dopo, l’8 settembre, ma questo è un dettaglio.
Finalmente sappiamo la verità sulla battaglia tra esercito regio e garibaldini che si svolse a Corleone nel 1860 e che sta alla base della corsa di san Leoluca. E’ proprio la verità: parola de “I nuovi vespri.it” online dell’indipendentismo siciliano, che lo afferma nel titolo. E a sua volta lo conferma Giuseppe Scianò, antico leader, che firma l’articolo. E’ talmente vera questa verità che sparisce perfino San Leoluca, che gli sprovveduti corleonesi portano di corsa in processione per l’occasione da centosessant’anni, senza sapere la verità: il presunto miracolo – afferma Scianò - è della Madonna delle Grazie, che qui va in festa solo tre mesi dopo, l’8 settembre, ma questo è un dettaglio.
Allora, Scianò ci racconta questa grande verità, per dimostrare che sono stati
gli inglesi a compiere l’impresa dei Mille. In linea di massima, sull’”aiutino”
inglese a Garibaldi, siamo tutti d’accordo. Il fatto è che Scianò vuole
dimostrare la sua tesi inanellando una serie di sciocchezze (minchiate si dice
in Sicilia) con grande nonchalance. La prima è che gli eroici soldati delle Due
Sicilie si coprirono di gloria in quell’impresa, perché misero in fuga Orsini e
i suoi, dei poveri incapaci. La dimostrazione, dice Scianò, sta nell’ampiamente
battuta superiorità numerica. Ora, inglesi o no, i dati storici sono certi: la
colonna di Mechel era composta da quattromila uomini, il reparto di artiglieria
garibaldino, quello che la affrontò a Corleone, era composto da una settantina
di uomini. E se pure – come vuol sostenere Scianò – non si trattò affatto di
una manovra tattica – e davanti ci fossero stati tutti i garibaldini, sempre
mille sarebbero stati (un quarto) o, calcolandoci anche un migliaio di
volontari, sempre minoranza sarebbero stati (metà). La verità storica è quella
che sappiamo da centosessant’anni: che i garibaldini erano un reparto che
fingeva d’essere un esercito, che aveva ricevuto man forte da trecento
volontari.
Andiamo avanti: l’eroismo dei Nono Cacciatori. Questo possiamo darlo anche per
buono; quello che per buono non si può dare è l’incompetenza degli avversari.
Scianò, che poco prima ha affermato che i regi furono accolti da un nutrito
cannoneggiamento, poi dice che i garibaldini avevano solo due cannoni (e una
columbrina aggiungo io) e tiravano a palla piena e che la fucileria di difesa
era inadeguata. Lo stratega Scianò dimentica che tre cannoni a palla avrebbero
dovuto coprire a batteria l’intera vallata sotto il Poggio e che la fucileria
era rada perché radi …erano i fucilieri. Erano trecento volontari, armati alla
meglio, con pistole e doppiette e non con i modernissimi fucili a canna rigata
in dotazione ai soldati, e per giunta divisi, perché una buona parte era stata
destinata a bloccare l’altra colonna regia che saliva dalle colline di San
Gandolfo, la quale, malgrado tutto, era riuscita a impegnarla tirandosela
dietro fino a Chiosi, al boschetto del Gatto, dove solo un atto eroico aveva
aiutato i difensori a smarcarsi.
Scianò poi ci spiega che il reparto garibaldino in rotta fuggì a Sambuca. In
realtà, continuando a fare la lepre, si accorse che proprio a Corleone il gioco
era stato scoperto e non c’era più motivo di correre. Così come non corsero più
nemmeno gli inseguitori, che a Corleone furono raggiunti dalla notizia che
Garibaldi li aveva beffati e, forse con l’aiutino inglese, come dice Scianò,
aveva già occupato la capitale. Se ne tornarono indietro, ma non di corsa, nel
tentativo di salvare il salvabile, ma molto lentamente, in modo che quando
arrivarono la capitolazione era già stata firmata. Che “l’aiutino” inglese
fosse arrivato anche a Von Mechel?
Difficile da comprendere poi la posizione contraddittoria di Scianò: vuole
rendere onore all’onore dei soldati regi, ma poi dice che per colpa degli
inglesi persero sottobanco la partita. Allora, che onore fu? D’accordo, onore
ai poveracci, ai comandati, che come sempre non sanno bene neanche perché
combattono, ma affrontano fatiche, ferite e morte. Ma quest’onore è da
estendere all’esercito in generale, quello composto soprattutto da chi dà gli
ordini? Come si può perdere una battaglia imperdibile come quella di
Calatafimi? Come si può perdere una capitale come Palermo? Come si può lasciare
attraversare lo Stretto senza colpo ferire? Molti pensano che più che agli
inglesi i generali borbonici si siano arresi all’oro trafugato dal Banco di
Sicilia e – caso strano – Ippolito Nievo, soprintendente dei Mille che tornava
a Torino per portare i conti, non ci arrivò mai perché il piroscafo su cui
viaggiava, casualmente colò a picco. Dunque, questo presentat-arm è proprio da
fare?
Ma – a parte lo "storico" can can - quello che dispiace di più in
questa vicenda è che anche il “sicilianissimo” Scianò, strenuo - ma soltanto
parolaio - difensore di questa terra, si infila nella trappola della
dietrologia mafiosa. Insomma, nel caso in questione, tra Scianò di Sicilia e i
soliti denigratori esteri di Corleone, non c’è alcuna differenza. Anzi, una
c’è: possiamo comprendere i pregiudizi dei detrattori esteri, non possiamo
comprendere quelli di Scianò, sedicente combattente per la Sicilia, il quale
afferma tranquillamente che tutti i volontari corleonesi erano mafiosi. Sì,
capita spesso ai Corleonesi la croce delle virgolette.
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