Fabrizio Barca |
Non fatevi illusioni: se sperate di leggere un’intervista in cui Fabrizio
Barca parla in politichese di minibot e riforme,
strigliando o motivando il governo, siete fuori strada. L’economista, già
presidente del Comitato per le politiche territoriali dell’Ocse, imprestato
alla politica ai tempi di Mario Monti per risolvere pasticciacci
brutti e chiamato in aiuto dal Partito democratico per risolvere quelli forse
ancora più brutti del Pd a Roma, per ora con la politica parlamentare e
governativa sembra non voler avere a che fare.
Ma è intensamente politica invece tutta la sua attività pubblica, nel senso
più nobile del termine: da cofondatore del Forum Disuguaglianze e Diversità,
da due anni è impegnato attivamente per studiare e proporre soluzioni concrete
che restituiscano un senso ai concetti di uguaglianza, pari opportunità
e dignità del lavoro garantiti dalla Costituzione.
Eppure calpestati,
ancor più che dalla tanto raccontata crisi, dalla mancanza di volontà e di
capacità per affrontarla: in altre parole, dall’inadeguatezza della
riflessione sul capitalismo, sul neoliberismo e sulle politiche
socio-economiche passivamente accettate come inconfutabili, a dispetto
di tensioni sempre più evidenti e di un’economia sempre più in affanno. Non c’è
da sorprendersi, infatti, se le due cose sono sempre più collegate, come spiega
Barca in questa lunga chiacchierata.
Perché ridurre le disuguaglianze è necessario, anche al capitalismo?
Per due ragioni, una difensiva e una offensiva. Quella difensiva è che,
essendo il capitalismo costruito sulla fiducia e sulla mitologia del benessere,
quando si raggiungono certi livelli di disuguaglianze e il malessere è così
diffuso, l’idea stessa del capitalismo non può reggere.
Quella offensiva?
Il capitalismo
funziona e dà il meglio di sé, cioè produce innovazione, quando
è stimolato dalla riduzione delle disuguaglianze. Come diceva Paolo Sylos
Labini, quando non ti è possibile sfruttare oltre il lavoro, allora i neuroni
cominciano a funzionare. In questa fase storica non c’è stata sufficiente
pressione: affrontare le disuguaglianze significa cercare profitto
nell’innovazione, meno nello sfruttamento.
Meno?
Be’, sì, meno: il
capitalismo è sfruttamento per definizione, ma è questione di bilanciamenti.
Nel determinare
gli squilibri ha avuto un ruolo importante anche l’accelerazione tecnologica
degli ultimi decenni. Ma non si può arrestare quest’avanzata?
Gli squilibri non sono
scritti nella tecnologia, anzi. La tecnologia dell’informazione
ha un potenziale diffusivo della conoscenza e se ha concorso a
determinare una fortissima concentrazione di potere, – parliamo delle
“nuove” Sette Sorelle digitali come Facebook, Amazon,
Google & Co. – è perché sono state fatte scelte politiche
sbagliate. Non abbiamo governato internet e abbiamo di fatto lasciato
che diventasse proprietà delle corporation. Non abbiamo fatto politiche di
regolazione concorrenziale delle corporation stesse, tollerando con Zuckerberg
quello che non tolleravamo nel Novecento con JP Morgan. Non abbiamo
utilizzato il potere pubblico di contrastare il monopolio facendo
imprese pubbliche, che storicamente sono uno strumento di concorrenza delle
imprese private. E, da ultimo, abbiamo avallato l’esasperazione dei
diritti di proprietà intellettuale, consentendo che si sbilanciasse
l’equilibrio delicato tra la proprietà privata della conoscenza e la
possibilità di renderla disponibile a tutti.
La diagnosa è impietosa,
ma precisa.
E come tutte le diagnosi
ben fatte dice anche cosa fare per cambiare le cose.
Cosa?
Come Forum
disuguaglianze proponiamo il cosiddetto “modello Ginevra”. L’Europa
deve costruire tre grandi hub tecnologici partendo dalle proprie infrastrutture
di ricerca per spingersi sul mercato. Vale per il digitale ma
anche per la farmaceutica: dobbiamo evitare che la ricerca sul Dna
venga utilizzata per avere persone che con 1 milione di euro si possono
permettere di vivere fino a 130 anni mentre gli altri crepano a 40.
Dobbiamo costruire piattaforme collettive – e questo è un
esercizio che possono fare le città – per il governo dei dati, come
stanno facendo Barcellona, Amsterdam, Milano. Si può per esempio immaginare di
organizzare servizi di trasporto pubblico in cui noi immettiamo i nostri dati,
ma ne controlliamo l’uso. Dobbiamo tornare a regolare la concorrenza,
come si propone in questo momento negli Stati Uniti, e dobbiamo invertire
quella assurda e paradossale situazione attuale per cui in Italia si valuta la
capacità dell’università sul numero dei brevetti che sforna. Capiamoci: i
brevetti vanno bene, ma è strano che vengano premiate le università pagate
dalla collettività non in base alla conoscenza che mettono a disposizione del
pubblico bensì in base a quella che rendono privata.
Sono soluzioni che
richiedono una volontà collettiva, che in questi anni si è vista poco. Inoltre
sui nuovi colossi dell’economia giocano un ruolo importante gli Stati Uniti,
che finora non hanno fatto molto.
Alcune delle cose che ho
detto sono giocabili nazionalmente, l’hub tecnologico ha una dimensione
europea, la pressione su Google e Facebook ha dimensione
internazionale mentre gli interventi sulle piattaforme collettive
sono locali. C’è una gamma di strumenti che va dalla città
fino ad arrivare all’internazionale e ogni livello ha spazi di manovra: chi
dice il contrario semplicemente non vuol cambiare. È importante capirlo,
perché uno degli alibi passati anche dentro al centrosinistra e alle
sinistre negli ultimi 30 anni è che non ci fosse granché da fare perché l’unico
livello era internazionale, e troppo potente per le loro forze. Non
solo è una motivazione falsa, ma spiega la moderazione suicida di molti partiti
di sinistra in giro per l’Europa.
Ecco, perché la sinistra
ha così paura di parlare di riforma del capitalismo, o anche solo di compiere
le azioni minime necessarie a fermare i monopoli?
Per ragioni che la
rendono oggi più moderata dei liberali. Certo, non vale per tutti:
voglio ricordare che il gruppo socialdemocratico europeo ha prodotto un
documento che si chiama “Uguaglianza Sostenibile” – ho avuto l’onore insieme a
Enrico Giovannini di far parte della commissione europea che lo ha prodotto –
ed è un testo radicale. Ma molte parti hanno scelto di non farlo proprio: per
esempio non è diventata la bandiera del Partito Democratico in Italia.
Appunto. Perché la
sinistra, anche in Italia, è così “moderata”, che è un modo gentile per dire
una sinistra che non fa la sinistra?
Le ragioni sono due. La
prima è culturale: 30 anni fa, non ieri, molti partiti
socialdemocratici hanno comprato l’ideologia del “Non c’è alternativa: il
capitalismo è uno solo, dobbiamo lavorare ai margini per renderlo un po’ meno
cattivo”. E se si pensa che non ci siano più i margini per lavorare sui
meccanismi di formazione della ricchezza, non lo faccio. E non per interesse,
ma perché mancano i valori.
La seconda ragione ha a
che vedere con le classi dirigenti: quelle venute su in questi
30 anni sono state selezionate su questo credo, senza più la
convinzione di un cambiamento che toccasse i sentimenti delle persone. La
maggior parte dei soggetti di questi partiti non è capace di avere una visione.
Trent’anni fa, insomma, c’era un problema di credo; oggi il problema non è
solo il credo ma anche la capacità della classe dirigente.
Significa che la
sinistra è spacciata, e con lei le speranze di un capitalismo alternativo e
migliore?
Credo che ci siano focolai
e fermenti di cambiamento straordinario. Il primo e più evidente sta
nelle organizzazioni di cittadinanza. Non è un caso che io
personalmente abbia trovato tanta corrispondenza all’interno del Forum
Disuguaglianze nel mondo liberale ma anche in quello cattolico,
sotto la spinta importante, dura e difficile dell’attuale Papa, che
si è trovato con un peso enorme sulle spalle e la cui azione sta liberando
energie nel mondo cattolico.
La seconda speranza è
che dentro ai partiti ci sono molti giovani il cui pensiero
non corrisponde necessariamente alle bandiere del partito stesso; d’altronde
spesso i partiti sono diventati partiti non valoriali, della
mitologia del centro, del “bisogna governare”, non stare alle visioni. In
parlamento ci sono figure giovani molto interessanti che possono concorrere in
modo strano al rovesciamento.
Il terzo fattore da non
trascurare – e non mi si fraintenda – è la stessa rabbia, il
risentimento che conducono al voto: lì dentro c’è una energia straordinaria.
Raccogliere lo scontento
e trasformarlo in carica positiva per reagire.
Oggi si apre una
opportunità interessante, che è l’alleanza con pezzi significativi del
business, di quella comunità imprenditoriale che non vuole un mondo
autoritario e che ha tardato a reagire. Ha incassato i benefici di un brutto
mondo e adesso si accorge della degenerazione. D’altronde è stato l’Economist, cioè un
giornale liberale, a scrivere cose radicali sulla necessità di cambiare i
mercati.
La comunità
imprenditoriale ha davvero capito che bisogna cambiare, al di là delle
iniziative quali la Corporate social responsability, che qualcuno ritiene una foglia di fico?
C’è un pezzo del mondo
del business, ben rappresentato appunto dall’Economist, che dice apertamente
che così non si può reggere. Non fa uscite moderate, sta dicendo che è tempo di
accettare cambiamenti significativi. Negli Stati Uniti, e nel mondo
anglosassone in generale, c’è più fermento, ma c’è qualcosa anche a casa
nostra: non siamo mai stati all’avanguardia, eppure oggi nelle organizzazione
imprenditoriali c’è un’attenzione che prima non c’era.
Un esempio concreto?
Il fatto che i tre
sindacati – Cgil, Cisl e Uil – e Confindustria siano d’accordo sulla necessità
di una partecipazione strategica attiva dei lavoratori nelle aziende:
quello è stato un segnale importante, un punto di arrivo anche per gli
imprenditori. Bisogna ridare al lavoro una parola significativa nelle scelte
strategiche imprenditoriali.
Abbondano leggi fatte in
nome del lavoro, ma le scelte di fondo ancora mancano.
Come Forum
Disuguaglianze su questo punto lavoriamo proponendo i Consigli del
lavoro e della cittadinanza, uno strumento che consenta di rompere il diaframma
tra lavoratori che subiscono le conseguenze della necessità di impiego e i
residenti della stessa area. Pensiamo a Taranto: se 12 anni fa
avessimo avuto un consiglio di lavoro e cittadinanza oggi Taranto sarebbe una
città con tecnologie che permettono agli abitanti lavori sicuri.
E le aziende più piccole?
L’Italia è fatta più di
piccole e medie imprese che di quelle grandi. Abbiamo dato le Pmi per morte
cento volte e invece è anche grazie a loro che l’Italia ha continuato a
salvarsi. Ma di recente si sono divaricate: da una parte ci sono quelle
che esportano, pagano buoni salari e fanno profitti, e dall’altra
quelle che sopravvivono a stento, pagano bassi salari e non esportano. Riproducono
esattamente la fotografia di due Italie domani possibili: una ha bisogno di
protezione e tutela, e può anche accettare di litigare con l’Europa. Gli altri
invece vogliono l’Europa, e vogliono fare un salto.
Se ci fosse davvero la
volontà di intervenire su questi molti fronti, quanto ci vorrebbe per gettare
le basi di un cambiamento reale?
Poco: un arco di tempo
di tre, cinque anni. Se nel tempo di un’altra brutta legislatura, che potrebbe
essere già incombente su di noi, le forze più avanzate della produzione, del
mondo del lavoro e della cittadinanza attiva costruissero nelle città le piattaforme
aperte, collettive, tecnologiche e trasparenti di cui abbiamo parlato,
per aumentare la concorrenza e migliorare il trasporto pubblico locale; se nei
territori si avviassero i consigli di lavoro e cittadinanza, che
non hanno bisogno di una legge per essere istituiti, grazie ai quale in 12 mesi
si potrebbe capire come organizzare in modo diverso il dialogo tra
imprenditori, cittadini e lavoratori; se in un altro pezzetto di Paese si
provasse a sperimentare una strategia sulle periferie, be’,
l’insieme di queste cose, in un Paese in cui non c’è nulla, farebbe una
differenza e costruirebbe un’alternativa. Che diventerebbe poi anche
un’alternativa elettorale.
C’è un grosso se,
parlando di forze di produzione: il “governismo” di Confindustria.
Confindustria,
Coldiretti e le organizzazioni devono uscire dal tavolo “verde” del governo,
capendo che la partita non si gioca solo lì ma anche in un contesto più ampio.
È chiaro che ci siano degli interessi di lobby che le aziende non possono
trascurare, e va bene. Ma è ovvio che il tavolo vero è un altro, e la partita
si gioca nei territori.
Cosa succede invece nel
peggiore degli scenari, se il cambiamento che ha ipotizzato non dovesse
realizzarsi? Se non ci fosse la sensibilità per intervenire a cambiare gli
scenari del capitalismo?
Se a livello
territoriale non si muovesse nulla, se i giovani in cui ho fiducia,
sparpagliati nei partiti, non si dessero una mossa nelle commissioni
parlamentari e se a livello europeo dominasse l’illusione che sia andata
abbastanza bene da poter procedere col moderatismo, ci troveremmo ad avere una
stagione interlocutoria. Dopo la quale gli antisistema diventerebbero
sempre più forti, con una possibile deriva autoritaria alla Orban. Sicuramente
in Italia, ma forse anche in altri Paesi europei.
Con un’economia in che
condizioni?
L’economia in difficoltà
già ce la abbiamo: ristagna. Ma nel caso peggiore fatto sopra l’unica
soluzione per le imprese per restare sul mercato sarebbe pagare bassi salari.
Vincerebbero le imprese protezionistiche che campano sulla rendita e
perderebbero le altre. Dunque ulteriore rabbia sociale, con
incidenti e domande di autoritarismo e di sicurezza. E, quindi, in risposta, regimi
liberticidi. Una spirale con meno libertà, meno crescita e più
disuguaglianza. In cui vince il peggio del nostro Paese, e non il meglio.
businessinsider, 12/6/2019
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