di AUGUSTO CAVADI
La ripresa autunnale della scuola è
condizionata tra l’altro – come sottolineato in varie manifestazioni di piazza
anche a Palermo – dall’assunzione in ruolo di un notevole gruppo di docenti
precari. Dagli slogan issati sui cartelli alle dichiarazioni governative
sembrerebbe, essenzialmente, una questione di soldi: per parafrasare nonno
Libero, un miliardo è poco e due sono troppi…Ovviamente l’aspetto finanziario è
imprescindibile e, ogni volta che le statistiche evidenziano le disparità di
investimento nel campo dell’istruzione tra l’Italia e gli altri Stati, si resta
stupiti e amareggiati.
Ma su questo il consenso generale è facile da
raccogliere. C’è un risvolto della questione, invece, talmente scottante che si
evita perfino di nominarlo: la qualità professionale degli insegnanti da
assumere. La logica, sinora seguita dalla fondazione della Repubblica, è di
genere emergenziale: ci sono cattedre vacanti, intanto occupiamole e poi
cercheremo di capire l’idoneità di chi le occupa. Tra l’altro, con questa
politica, si catturano due piccioni con una sola fava: infatti si soddisfa la
fame di insegnanti, ma si dà anche un posto di lavoro a giovani laureati. Naturalmente,
saltando i meccanismi ordinari di selezione (i concorsi a cattedra o gli
equivalenti funzionali che si sono succeduti negli ultimi decenni), è stato più
facile trovare docenti; ma, proprio il numero notevole di essi ha in qualche
modo legittimato delle remunerazioni non certo appetibili.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti perché tutti siamo stati alunni,
spesso genitori, talora insegnanti: una grande disparità di livello delle
prestazioni professionali. Ci siamo abituati, come fosse una sorte
ineluttabile, a giocare al lotto: qua una maestra elementare o un professore di
liceo preparati, appassionati, comunicativi, pazienti; là un maestro
di scuola materna o una docente di scuola media che si esprimono in un
italiano approssimativo, che arrivano in classe sbadigliando, concentrati sul
secondo o terzo lavoro che svolgono più o meno illegalmente…Questa disparità di
attitudini ci scandalizza quando la soffriamo nell’ambito della sanità o della
giustizia e la riterremmo pazzesca se riguardasse i capitani delle navi o il
piloti degli aerei, ma la tolleriamo molto facilmente quando si tratta della
salute mentale e psichica dei nostri ragazzi. Non invidio l’attuale ministra
dell’istruzione e ritengo che solo in malafede si possano dettare disinvoltamente
ricette sul da farsi nei prossimi tre mesi. Ma sono certo che, al di là delle
risposte d’urgenza alle necessità imposte dall’epidemia, qualsiasi governo
attuale o futuro non potrà differire ulteriormente la questione della qualità
culturale e etica degli insegnanti, dalla scuola materna all’università. In
concreto ci sono almeno tre punti da determinare con coraggio innovativo:
a) i
giovani laureati che aspirano all’insegnamento hanno diritto ad affrontare
almeno ogni due anni una prova abilitante che assicuri una cattedra, senza
dover attendere decenni in condizioni di precariato e di incertezza sul
futuro;
b) i meccanismi selettivi devono essere rigorosi almeno quanto i
concorsi per entrare in magistratura o per diventare notai, ma – superati –
devono assicurare una retribuzione mensile da professionisti;
c) nessun docente
dovrà considerarsi, come oggi, praticamente inamovibile e illicenziabile: un
organo di autogoverno dei docenti deve essere in grado di trasferire ad altri
impieghi, o di licenziare, gli insegnanti che per i motivi più vari (di salute
fisica, di equilibrio psichico, di demotivazione esistenziale, di disonestà
morale…) non sono più – o non sono mai stati – capaci di svolgere con decoro ed
efficacia pedagogica i propri delicatissimi compiti istituzionali.
So già le
diffidenze e le obiezioni che ogni proposta di questo genere suscita
soprattutto fra i colleghi che scambiano la libertà d’insegnamento – garantita
dalla costituzione italiana – con l’insindacabilità del proprio operato didattico.
Ma se mi è chiaro quanto a loro che un genitore commercialista o psicoterapeuta
non è legittimato a criticare l’adozione di un testo di letteratura greca o le
modalità di un’esercitazione di chimica in laboratorio, mi è altrettanto chiaro
– a differenza di alcuni di loro – che noi docenti non siamo i padroni della
scuola: non possiamo arrivare regolarmente in ritardo, riconsegnare i compiti
scritti corretti dopo mesi, intimorire gli studenti con improperi e minacce,
esonerarci dalla fatica delle spiegazioni chiacchierando di moda o di sport,
valutare gli alunni anche in base a simpatie e antipatie
caratteriali…Soprattutto, ed essenzialmente, non abbiamo il diritto di
mostrarci insensibili al fascino delle discipline che insegniamo, suggerendo
così l’idea che studiare sia un dovere ineluttabile, funzionale al diploma
cartaceo, anziché una gioia da privilegiati che dà senso alla vita e rende
cittadini/e dalla schiena dritta.
La Repubblica Palermo, 30 giugno 2020
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