Uno dei tanti progetti di ponte sullo stretto di Messina |
MARCO REVELLI
C’era da scommetterci. E’ bastato che si sentisse il profumo dei soldi,
solo il profumo per ora – che dall’Europa si profilasse un bel pacco di
miliardi – perché il solito fantasma ritornasse ad aggirarsi nel sottobosco
della nostra politica: il fantasma del ponte. Il sogno di tutti gli
scialacquatori del pubblico denaro e l’incubo di tutti i cittadini ben
informati. Il Ponte sullo stretto, s’intende, quel gigantesco maelstrom che
finora ha divorato, rimanendo sempre nel suo stato fantasmatico, visibile solo come
rendering, un miliardo di euro. Gemello, in questo, di quell’altra Grande Opera
Criminale che è il TAV Torino-Lione.
Inopinatamente, presenza surreale in un’Italia segnata dai lutti del
Covid-19 e angosciata dalle ombre del proprio futuro economico, quello spettro
è rientrato nel dolente scenario politico nostrano per la porta principale, da
palazzo Chigi addirittura, in un’esternazione del Presidente del Consiglio
Conte. Per la verità si è trattato appena di un sussurro. Giusto un
impercettibile movimento dell’aria come quelli che annunciano i fantasmi allo
stato embrionale: quattro parole appena, “Lo valuterò senza pregiudizi”, in
risposta a una domanda diretta. Ma tanto è bastato a Repubblica – che non sogna
altro che vederlo morto quel governo – per lasciarsi andare a un trionfante
“Benvenuto tra gli innamorati!” e sparare a tutta pagina il titolone Anche
Conte sedotto dal ponte sullo stretto.
Sul Fatto – solo sul sito del Fatto – abbiamo potuto leggere e ascoltare
l’intera frase pronunciata in quella sede dal Presidente del Consiglio, che
suona in realtà così: “Non voglio declamare opere immaginifiche. Non a caso ho
parlato di una rete infrastrutturale-viaria che è inaccettabile. C’è tanto da
fare (i collegamenti sulla costa Ionica della Basilicata, il binario unico tra
Roma-Pescara-Lecce, l’Alta Velocità a Venezia, per non parlare della Sicilia) e
quando avremo la possibilità di programmare e realizzare i progetti che ho
citato) mi sederò a un tavolo e senza pregiudizi valuterò anche il ponte sullo
Stretto“. Difficile leggervi un colpo di fulmine da innamorato. Ma tant’è. Il
guaio era fatto, con lo sdoganamento del mostro che ha potuto così fare ritorno
impunemente tra le pieghe dell’Agenda politica.
Possiamo anche immaginare le ragioni tattiche che hanno dettato quella
“diplomatica” ammissione. La necessità di alleggerire la pressione renziana
dall’interno della coalizione, col Bullo di Rignano sempre pronto a cercarsi
col lanternino le peggiori cause su cui condurre la propria personale guerriglia.
L’illusione di placare la furia del mastino di Baskerville che da
neo-presidente confindustriale, non pago dei disastri prodotti nella sua
regione con i diktat sulle riaperture, aveva da poco lanciato il suo anatema
contro un governo che “ha fatto peggio del virus”, sperando di accaparrarsi
tutto il tesoretto in arrivo da Bruxelles con una nuova coalizione di “amici”.
Forse anche un ballon d’essai lanciato a Berlusconi, come possibile ruotino di
scorta di una maggioranza risicata… Tutto possibile: questo è oggi la politica…
Resta tuttavia il fatto che Giuseppe Conte ha fatto male, malissimo, a lasciare
aperto anche solo uno spiraglio. Quello spiraglio. Che finisce per avvicinare
pericolosamente l’”avvocato del popolo” ai tanti avvocati dei “nemici del popolo”,
che da anni, decenni, brigano con carte bollate, manovre sotterranee, campagne
di stampa, manovre parlamentari sotterranee, occultamento di conti e bilanci,
per tenere in vita quel cadavere che ormai da 35 anni ci ammorba.
La cosa era incominciata nell’altro secolo, nel 1981 (!), con la nascita
della “Società Stretto di Messina” di cui la Corte dei Conti ha sancito lo
scioglimento avviandone la procedura di liquidazione e, nel contempo,
calcolandone i costi sostenuti: una cifra enorme, costituita da un costante
esborso di 10 milioni di euro all’anno per sole spese amministrative e
gestionali (gettoni di presenza, personale di segreteria, emolumenti di
rappresentanza), oltre all’interminabile lista di spese per studi di
fattibilità, consulenze milionarie, progettazione, monitoraggio del nulla,
analisi geognostiche (una lista che chi ha seguito la vergognosa vicenda del
TAV in Val di Susa conosce bene). Nel ventennio che va dal 1981 al 2001, dice
la Corte, sono stati spesi 74milioni e 443mila euro “per studi di fattibilità,
ricerca e progetto di massima”. Nel biennio successivo (2002-2003) altri
91milioni e 246nila euro se ne sono andati ancora per “il progetto preliminare
e gli atti di convenzione”. In un solo biennio (2004-2006) sono stati buttati
ben 147 milioni “per la gara di appalto, il piano finanziario, i sistemi
informativi e gestionali”. Poi l’attività è stata sospesa per due anni, tra il
2007 e il 2008, ma i costi paradossalmente sono saliti a un ritmo ancora
maggiore: 160 milioni e 662mila euro!!! L’anno successivo si è messo mano alle
“attività per gli accordi con i contraenti”, all’aggiornamento delle
convenzioni e si è avviato il piano finanziario terminate l’anno successivo,
con una spesa di 172milioni e 637mila euro. In ultimo – in fine velocior – tra
il 2010 e il 2013, sono stati gettati, tra Scilla e Cariddi, oltre 312 milioni
per “la stesura del progetto definitivo, il monitoraggio ambientale,
l’aggiornamento del piano finanziario e la stipula dell’atto aggiuntivo”. Tutte
cose INUTILI, perché nello stesso anno, nel 2013, si è proceduto d’ufficio allo
scioglimento della società, che non è stato, neppure quello, privo di oneri,
anzi è costato 5 milioni e mezzo di euro finiti nelle tasche dei soliti
avvocati dei “nemici del popolo”. La somma finale a tutto il 2017 ammontava a
958 milioni e 292mila euro…
Per questo, di quel Ponte sul nulla non bisognerebbe proprio più parlare.
Decenza vorrebbe che non venisse neppur più nominato. Anche perché –
bisognerebbe dirlo al premier – porta sgarro. Una breve occhiata alla storia ci
dice che chiunque l’abbia evocato o rievocato, è finito male (politicamente
parlando, s’intende). L’aveva varato Bettino Craxi, al culmine della sua
potenza, nel 1985 quando nella sala delle Repubbliche marinare di Palazzo
Chigi, siglò “in forma solenne la convenzione per la realizzazione dell’opera,
davanti a numerosi ministri e alla nomenklatura siciliana” dichiarando “Entro
il 1994 il ponte sarà ultimato”. Poco dopo incominciò il suo declino. Nel 2001
sarà Berlusconi, con un “Pronti, via!” gridato dagli scogli davanti al mare, a
sponsorizzare l’opera inserendola tra le prime opere della famigerata
legge-obiettivo e assicurando che nel 2012 sarebbe entrata in funzione (è
uscito da ogni funzione pubblica prima lui). Ci aveva riprovato nel 2016 Matteo
Renzi, su assist dell’allora suo ministro dell’interno Alfano, con un
impegnativo “Se siete pronti noi ci siamo”. Prima il ministro, poi il premier
non ci sono più stati (nelle stanze dei bottoni).
Scherzi a parte. Ci sono molte buone ragioni per cancellare dal nostro
orizzonte un’opera che, esattamente come il TAV in Val di Susa è costosa (il
suo costo era già valutato dieci anni fa intorno agli 8-9 miliardi di Euro,
quasi un punto di Pil), inutile (gli studi più accreditati dicono che il
traffico prevedibile non supererebbe l’11% della portata), dannosa (come
denuncia il WWF “va ad incidere su un’area ampiamente vincolata per gli
straordinari valori paesaggistici e severamente tutelata dall’Unione Europea”).
La sua riesumazione, anche solo in via ipotetica, come possibile voce di una
possibile agenda politica, sarebbe un pessimo segnale su quanto ci aspetta
nella fase che segue la tragedia del Covid-19. Una dichiarazione tombale che
“cambiare non si può”.
Volere la luna, 6 giugno 2020
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