di PINO BLASONE
scrittore e storico
Forse, ci si può chiedere perché mai uno storico si avventuri nell’impresa
di una specie di diario contemporaneo, peraltro alquanto drammatico
come lo stesso titolo denota. Una probabile risposta è che spesso si immagina la
mente dello storico rivolta al passato. Al contrario e più di frequente, essa
lo è al presente, qualche volta perfino al futuro, cercando nel passato ragioni
e analogie utili a chiarire quel presente o a prevedere e prevenire quel
futuro. Non sempre tuttavia la storia appare logica. Così, la mente storica è
indotta a essere analogica. Le sue analogie possono consistere nel confrontare
fra loro eventi del passato, per capirne meglio il significato o per conferire
loro un senso il più possibile attendibile. L’analogia di fondo, tuttavia,
resta quella col presente, anche quando non si pretende che gli avvenimenti
trascorsi impartiscano una lezione, ma che almeno offrano un suggerimento.
Tale è la «forma mentis» riflessiva, suppongo, che ha spinto Carlo Ruta a
calarsi nel e a misurarsi col presente, con un orecchio pur sempre teso ai
«richiami della storia», dicitura pure compresa nel sottotitolo. Ma veniamo al
titolo, I giorni della peste. Essi sono innanzitutto quelli che
ancora viviamo, laddove «peste» è colloquialmente intesa come pestilenza,
epidemia, pandemia. Né l’avverbio «colloquialmente» è qui usato in maniera del
tutto accidentale, poiché l’ideale di uno storico dovrebbe appunto essere un
costante colloquio tra presente e passato. Quando l’ascolto della storia viene
interrotto – e questa è una delle tesi del nostro –, allora il tempo stride e
rischia di scivolare «fuori dei cardini», come nel famoso benché enigmatico
modo di dire recitato dall’«Amleto» scespiriano.
Una questione cruciale è quella della sospensione delle libertà
costituzionali, durante l’emergenza determinata dalla diffusione epidemica del
Coronavirus, premesso che il nostro migliore passato è rappresentato dalla
Costituzione repubblicana e dall’assetto democratico che essa comporta. D’altro
canto, se vi sono state spinte autoritarie in passato, è pur vero che
sussistono tendenze tecnocratiche al presente, pronte ad approfittare della
situazione per sperimentare forme di controllo sociale e politico impensabili
appena qualche tempo fa. Ad esempio, la Costituzione Italiana, art. 16,
prescrive: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente, in
qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge
stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna
restrizione può essere determinata da ragioni politiche».
Ora, è evidente, il realizzarsi di tali circostanze limitanti eccezionali e
circoscritte può alimentare la tentazione di convertirle in un assetto politico
stabile o a tempo indeterminato. Qual è il nostro grado medio di memoria e di
accortezza collettive, affinché ciò non avvenga? Quali sono le garanzie e il
potere effettivo, che operino in tal senso? È opportuno interrogarsi in merito,
adottando tutte le precauzioni possibili che scongiurino un abuso prolungato ed
estensivo di dette restrizioni, prima che possa essere troppo tardi.
Paradossalmente, ciò può configurarsi come la trasformazione dello Stato
liberale di diritto nel simulacro rassicurante ma ingannevole di uno
paternalistico e iperprotettivo: uno Stato della Cura e Prevenzione, secondo
quanto anche analizzato a suo tempo dal filosofo francese Michel Foucault.
Non allarmismo, quindi, ma piuttosto messa in guardia. «Melius abundare
quam deficere», avvertiva un noto proverbio latino. In effetti, in questo
frangente e analoghi purtroppo l’esperienza storica insegna o suggerisce che
gli avvertimenti non sono mai troppi. Dopotutto, le peggiori involuzioni
autoritarie europee del Novecento sorsero proprio nel rispetto formale delle
regole del gioco democratico, o come apparente sospensione temporanea delle
stesse, durante periodi reali o presunti di emergenza nazionale di varia natura
e determinata da diversi fattori, in uno scenario internazionale inerte o
connivente.
In un crescendo di ragionata preoccupazione, l’analisi critica di Ruta si
articola per gradi temporali e datati, che sono altrettanti capitoli: dodici,
più una breve introduzione e un prologo. Giova citare almeno da questo,
intitolato La civiltà e il crepuscolo che avanza, se non altro
perché esso è l’ultimo steso in ordine di tempo, riassumendo motivazioni e
argomentazioni le quali informano i capitoli successivi. Peraltro, nei
paragrafi iniziali, la visuale si allarga a un contesto, che è esplicitamente
europeo e insieme implicitamente globale:
«Fino alla metà del febbraio 2020 tutto appariva normale, in Italia,
in Europa, in altri continenti. L’infezione da Covid 19 sembrava una delle
tante epidemie destinate a rimanere in larga misura mimetiche e
territorializzate, controllabili senza impieghi straordinari di risorse. Già
verso la fine di gennaio, quando la marcia di avvicinamento del virus verso
l’Europa progrediva giorno dopo giorno, si avvertiva in realtà, in profondo,
qualcosa di anomalo. Ma la prima reazione fu meno che blanda: di fatto
inesistente. È mancata in realtà la capacità di un’analisi fredda di quanto
stava avvenendo.
Mentre l’infezione ghermiva l’Italia, che diventava il focolaio più
propriamente pandemico mentre quello cinese veniva spento velocemente con un
numero contenuto di morti, ogni paese, semplicemente, si è rinserrato nei
propri confini. Si è annichilita ogni forma di solidarietà civile. L’Unione
Europea ha toccato platealmente il fondo, al punto che ha dovuto ammetterlo,
con le scuse ufficiali presentate agli italiani un mese e mezzo dopo, quando il
Paese era nel pieno del disastro e l’intero continente era ormai infettato».
Carlo Ruta, I giorni della
peste. Il presente tragico e i richiami della storia , Edizioni
di Storia e Studi Sociali, 2020 (edizionidistoria@gmail.com).
Nessun commento:
Posta un commento