Silvia Romano |
Gli insulti e le offese a Silvia dimostrano come quanto sia ancora malato
il nostro Paese. Il virus, in questo caso, si chiama “capro espiatorio”.
È il bisogno di costruire un nemico simbolico – chiamato ora “traditore”,
ora “reprobo”, ora “impuro” – contro cui una
comunità incattivita scarica il suo odio e la sua rabbia, e così nasconde agli
altri e a se stessa le storture al proprio interno, la propria ingiustizia e la
propria mancanza di umanità. Il capro espiatorio serve a dare illusoria
compattezza a comunità disgregate.
Silvia è una giovane
donna che è andata in Africa per lavorare in un orfanotrofio e che ha vissuto
il trauma terribile di un sequestro di persona. Liberata dopo un anno e mezzo,
ha dichiarato di aver cambiato nome e di essersi convertita all’Islam durante
la prigionia.
Una comunità degna di
questo nome dovrebbe darle il tempo di elaborare la sua esperienza, capire come
ha influito sulla sua interiorità la terribile esperienza della prigionia. Sono
vicende che non possono essere guardate da fuori con occhio freddo, giudicante
o, peggio, cinico. Una comunità vera sa mettersi nei panni degli altri, a
maggior ragione se gli altri soffrono o hanno sofferto. L’empatia è il collante
della civiltà. Senza empatia precipitiamo nella barbarie.
Quanto alla
conversione all’Islam, non tutti i musulmani sono integralisti così come non
tutti i cattolici sono reazionari. La fede autentica chiama in causa la
coscienza e la responsabilità. È una faticosa ricerca di verità, non un imporre
certezze travestite da verità.
Sono certo che Silvia
arriverà col tempo a capire quanto c’è di autentico nella sua conversione e
quanto di dettato dalle contingenze terribili vissute. Nel frattempo dobbiamo
lasciarla in pace e gioire con lei e per lei del suo essere viva.
* Presidente
Libera e Gruppo Abele
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