Papa Francesco e Raniero La Valle |
RANIERO LA VALLE*
In quel tempo c’era stato un editto del governo per il quale nessuno si doveva baciare, certe regioni avevano mandato i malati fuori dai loro ospedali e i morti spedito ad altri cimiteri e c’era stato anche un concordatino tra Stato e Chiesa, a prova del fatto che nessuno voleva limitare la libertà di culto. Esso dettava minuziose norme sulla celebrazione delle messe: queste, come era noto ai contraenti, sono il modo simbolico (e per i teologi anche reale) in cui viene rappresentata quella cena in cui il Signore Gesù spezzò il pane lo scambiò con i suoi discepoli e lavò loro i piedi. Ma con le regole di oggi e perché il simbolo mantenga la sua verosimiglianza con l’evento, occorrerebbe che Gesù avesse parlato attraverso la mascherina, avesse spezzato il pane con i guanti, lo avesse non dato nelle mani ma fatto balzare nei piatti dei Dodici, si fosse dimenticato di versare il vino, avesse lavato i piedi agli apostoli stando a distanza magari con una lunga spugna o, ancor meglio, non glieli avesse lavati affatto. E quanto a Leonardo da Vinci avrebbe dovuto dipingere una tavola di tredici metri uno per commensale o più se alla cena fosse stato ammesso qualche altro ospite contato.
Basta questo per dire come quello dovesse essere un tempo del tutto straordinario e anzi di profondissima crisi. In effetti c’era, rubando per sè tutta la scena, la crisi sanitaria suscitata dalla pandemia. Ma c’era anche la crisi dell’intero sistema globale che l’aveva provocata e incrudelita, la crisi del denaro creduto onnipotente ma prigioniero per altri scopi che non quello del bene comune e di altre persone che non quelle che con la fatica e il lavoro lo moltiplicavano sulla terra. E c’era una crisi nella Chiesa, perché non si era mai visto un Vangelo svelato ogni mattina al mondo da Santa Marta, un Vangelo che si pensava già saputo e risaputo e che invece giungeva come nuovo, come uno scoop; e per molti nella Chiesa quello appariva un discorso troppo duro tanto da non volercisi immischiare, o anche da volersene andare o magari, invece di andarsene, imperversare con i loro attacchi e distruggere.
Dunque un tempo di crisi. Ma forse era anche il tempo di un’altra cronologia, il tempo atteso, quello promesso in cui tutto sarebbe cambiato, un principio di vita nuova non più circoscritto al tempio di Gerusalemme né trattenuto nelle sue mura né imprigionato dal suo muro postumano e dai mille altri muri di separazione sparsi nel mondo. Il tempo è questo aveva detto Gesù alla Samaritana, il tempo è questo, stava scritto in testa al sito di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” e questa era la profezia di tutta la Chiesa.
Se dunque si incrociavano due tempi, quello atteso e quello della crisi, anche i segni del tempo apparivano contrastanti, segni di tormenta e segni di aurora.
Ma se davvero era quello un tempo così speciale, un duplice tempo, un tempo da cambio d’epoca, ci voleva una risposta straordinaria per accoglierlo, per lavorarlo, per viverlo. E per affrontarlo ci voleva una Chiesa profondamente rinnovata, quale mai era stata pensata dopo il tempo delle origini.
Essa era cresciuta e aveva preso la fisionomia attuale in un’altra epoca, detta di “cristianità” che ormai era finita e anzi licenziata. La riforma di cui essa aveva bisogno andava ben oltre il matrimonio dei preti e i ministeri femminili, ma in quello stato di cose la Chiesa questo non lo poteva fare. A compiere l’opera doveva essere il pontificato e la Chiesa di Francesco, in continuità col Concilio. Ma papa Francesco, mentre realizzava la riforma più radicale che è la pubblicazione del Dio ancora inedito, nella riscoperta trasfigurante della persona del Padre, ha spiegato da Santa Marta che dentro questa crisi, della Chiesa e del mondo, non era possibile fare i cambiamenti che pure si vorrebbero. Come dice un proverbio della sua Argentina, “quando passi un fiume non cambiare cavallo”: in tempi di pace si possono fare miracoli, come dicono gli Atti degli Apostoli, ma quando c’è la crisi e la gente non regge le parole di vita e se ne vuole andare, tanto che Gesù chiese agli apostoli se se ne volevano andare anche loro, non bisogna sfidarla con la necessaria discontinuità.
Ma allora se non era la Chiesa e neanche le religioni stabilite che potevano operare il cambiamento in quel tempo di crisi, chi doveva e poteva farlo perché il tempo nuovo caricasse le vele? Era il mondo che doveva farlo, lui era il soggetto della liberazione, l’umanità tutta intera, il popolo di Dio nella sua dimensione più ampia che abbraccia tutta la Terra. Questo è il popolo amato dal Padre e chiamato alla salvezza, il popolo di Dio, dentro e fuori le Chiese, di ogni denominazione e senza denominazione. È il vasto popolo del mondo che non ha un suo nome che lo distingua, come è dei Greci o degli Spagnoli, perché il suo nome sarebbe quello di Dio, ma il nome di Dio non è esprimibile in termini umani. Perciò i musulmani invocano i 99 bei nomi di Dio ma non giungono all’ultimo, perciò nell’ebraismo esso è nascosto nel tetragramma sacro, perciò nel cristianesimo non c’è altro nome al di sopra del nome di Gesù, perché il nome di Dio è il suo stesso essere, “Io sono”. Perciò non si può nominare il nome di Dio invano, perché nessuno possa appropriarsene per distinguersi gli uni dagli altri. Non si può spartire. Si può essere buddisti, confuciani, animisti, maomettani, anche cristiani, ma col nome di Dio nessuno si può far differenziare. La tunica non si divide.
Ma in che modo il popolo di Dio che è l’umanità tutta intera poteva e può farsi protagonista dell’avvento del tempo nuovo?
La formula è semplice: convertitevi e credete al Vangelo, è l’invito rivolto da Gesù alle folle all’inizio della sua predicazione. Ma quale Vangelo? Per noi i vangeli sono i quattro ben noti, di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, ma c’è anche un quinto vangelo, il vangelo di Gesù. Naturalmente è lo stesso Vangelo, e quello di Gesù è contenuto e anche nascosto negli altri quattro.
Ma c’è una differenza: i quattro Evangelisti parlano di Gesù, e questi
sono i pilastri su cui è costruita la Chiesa; il quinto vangelo, il Vangelo di Gesù parla del Padre, e anche quando parla di sé lo fa per far vedere il Padre e lo rivela, ne fa l’esegesi come Padre e pastore di tutti senza discriminazione di lingua di religione o di peccato.
Il Vangelo di Gesù è dunque un Vangelo non denominazionale e ad esso davvero possono convertirsi tutti i popoli della Terra: paternità, fraternità, grazia di Dio, tutto, tutto, come diceva papa Giovanni nel suo discorso della luna. E pace, mitezza, servizio ai poveri, pane spezzato, lavoro non schiavo; e come pastori, dice Francesco, non solo i ministri del culto ma i medici, i governanti, e le donne, anello più alto della congiunzione tra uomo e natura.
Papa Francesco è all’incrocio di questi processi: conversione della Chiesa nel rinnovato annuncio del vangelo di Gesù sul Padre e conversione del mondo nell’apertura al vangelo narrato da Gesù anche senza conoscerlo o magari scoprendone nei cristiani la memoria al loro spezzare il pane.
In ciò forse consiste il mistero Bergoglio. Si parlò ai tempi del Vaticano secondo di un “mistero Roncalli”, perché senza mai averci pensato prima, aveva indetto il Concilio per mettere a nuovo la Chiesa. Ora il mistero Bergoglio, la sua missione di papa sembra essere quella di mettere a nuovo il mondo. In questo c’è la vera continuità con Francesco d’Assisi. Francesco ebbe la visione che dovesse restaurare la Chiesa. Fu interpretato che dovesse restaurare la chiesa di san Damiano, poi che dovesse restaurare la Chiesa romana. Ma lui non la prese così; il suo vero orizzonte fu il servizio a tutte le creature, fu il restauro del mondo, anche in nome di un Vangelo, quel quinto vangelo, ai più sconosciuto. Per questo si spogliò delle armi della crociata, e per questo andò dal Sultano. Dopo di ciò “pace e bene” è stato l’augurio uscito da milioni di bocche.
Papa Francesco è in questa linea di successione. Predica il vangelo di Gesù, ossia il vangelo sul Padre; vorrebbe, a saperle, dire le parole corse sulla strada di Emmaus, quando era Gesù a spiegare le Scritture ai discepoli. E nel far questo nello stesso tempo indica e promuove la restaurazione del mondo. Nella giustizia. È come se respirasse con due polmoni, quello del popolo della Chiesa e quello del popolo del mondo, la diastole e la sistole di un unico cuore da cui procede un unico respiro; la Chiesa dei santi, dei richiedenti asilo nel Regno, e quella degli uomini tutti, la vera Chiesa.
Sarà questa la nuova “cristianità”, che non avrà questo nome, e anzi alcun nome, perché non si può né possedere né spartire il nome di Dio? Perché la secolarizzazione è irreversibile.
Raniero La Valle
* Raniero La Valle è oggi uno dei pochissimi eredi di Giuseppe Dossetti ancora vivo. Ha diretto Avvenire d’Italia negli anni del Concilio, è stato a lungo parlamentare della Sinistra Indipendente. Un mostro sacro, potremmo dire. Ma anche un cattolico coraggioso, capace di alzare la voce mentre altri credenti ce ne stiamo zitti, limitandoci a scuotere la testa davanti alle convulsioni politiche innescate dalla tragedia delle ondate migratorie e delle morti in mare, perplessi e silenti davanti alle risposte ‘accorte’ dei nostri leader e governanti.
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