Carlo Ruta |
Il Covid 19 ha rovesciato, a ben vedere, il vaso di Pandora, rivelando in
primo luogo le illogicità dei paesi più ricchi e interconnessi, dell’Occidente
europeo e atlantico in particolare, che poi sono quelli che più stanno subendo
l’attacco epidemico. Negli ultimi decenni, a dispetto delle crisi, il mondo ha
cambiato volto, sospinto dalle grandi economie sistemiche e dal gigantismo
tecnologico, che hanno generato presunzioni di onnipotenza a tutti i
livelli. L’intelligenza artificiale, i supporti satellitari, il web e i nuovi
modelli dei consumi hanno portato a credere in una sorta di realtà aumentata,
dove ogni risorsa è attingibile e a portata di mano, o di click. Tutto appariva perciò
perfetto, infallibile, supremo.
Era però solo una parvenza, un film. Attaccato frontalmente
dal nuovo virus asiatico, il re, come nella favola di Andersen, si è ritrovato
infatti nudo, attonito e senza difese, privo quindi di quel carisma imperioso
che aveva sempre ostentato. In questi mesi lo si è visto arrancare, brancolare
nel buio, ottenebrato da una paura crescente che, a fronte della minaccia
reale, lui stesso ha contribuito a rendere parossistica. Tanto tronfio e geloso
dei «valori» di cui si sente il custode ultimo, dei suoi profitti e dei suoi
arsenali, questo mondo si è rivelato, in larga parte, privo di senso strategico.
Alcuni paesi non sono stati neppure capaci di munirsi in tempo di banali
mascherine. Il Covid 19 ha rotto in sostanza il «giocattolo». Ha profanato fino allo
scandalo le roccaforti della finanza globale, le città e le regioni più
slanciate sul futuro, svelandone i bluff. E le risposte all’infezione appaiono
davvero emblematiche di questo collasso razionale, che si esprime in vari modi,
come, tra l’altro, la caccia all’«untore», la corsa esclusivistica al
vaccino e i fucili d’assalto di cui vanno dotandosi le classi popolari e medie
statunitensi, nella West Coast in particolare, per sentirsi
più protetti.
Cos’è la «peste» evocata dal titolo?
Come si evince da quanto detto, non è solo quella epidemica. La peste più
temibile è annidata nei sistemi e nei processi cognitivi, nelle culture, nei
modi di pensare delle società contemporanee, nel sostrato antropologico in
definitiva. Essa avanza con le nuove paure, che rischiano di travolgere l’età
dei diritti di cui parlavano nel secondo Novecento Hans Kelsen e
Norberto Bobbio. Come dimostra, da tempo ormai, la diffusione dei populismi e
di movimenti analoghi, sempre più si avverte un bisogno di «protezione» e di
«sicurezza» per il quale diventa concepibile anche il sacrificio di libertà e
diritti. La peste viaggia con i risorgenti autoritarismi, con il
restringersi del pensiero critico, che ha costituito nel mondo moderno e
contemporaneo un presidio forte dei diritti e della democrazia. Le opinioni
pubbliche tendono ad assuefarsi e a perdere quello stato di vigilanza attiva,
quella reattività democratica che specie dalla metà del Novecento, con lotte
sfibranti e costi molto elevati, ha cementato le strutture di quella «società
aperta» di cui parlava Karl Popper. È andata mutando, in realtà, la percezione
sociale delle cose, del sé, della vita, della morte, mentre li agi,
l’opulenza e i comfort hanno abbassato sempre più la soglia del dolore e del
tollerabile. Le sicumere tecnologiche e le presunzioni di onnipotenza
coesistono allora con una perdita di senso, con un indebolimento, appunto, del
sostrato antropologico. L’esito è quello di una rarefazione democratica che rischia di
tradursi in regressioni aperte, nello smarrimento definitivo di quella
razionalità attiva, conoscitrice e ordinatrice, civile in ultima istanza, che i
Greci identificavano con il logos.
Quali precedenti storici è possibile richiamare per la situazione attuale?
La situazione epidemica di oggi costituisce per certi aspetti un unicum storico,
e su questa unicità, non ancora ben rilevata sul piano analitico, credo sia
opportuno riflettere un po’ d’ora in avanti. Le grandi infezioni
del passato di cui ci giunge memoria, dalla peste di Atene del 430 a.C. fino
alla Spagnola che esplose nel primo Novecento subito dopo la Grande Guerra,
hanno avuto effetti pesanti sulle rispettive epoche, forse superiori a quelli
che emergono dalle narrazioni letterarie e dalle fonti storiografiche. Ma a dispetto della
loro immensa tragicità, hanno assunto, comunemente, movenze «taciturne»,
sciogliendosi negli sfondi delle epoche e facendosi, come altri elementi
oggettivi, «paesaggio». È il caso di fare un esempio. Gli anni successivi alla
Grande Guerra evocano, al cittadino bene informato oltre che agli storici,
tante cose: gli sconvolgimenti della rivoluzione russa, il controverso trattato
di pace di Versailles, la nascita e le prime evoluzioni del fascismo in Italia,
l’uccisione di Rosa Luxemburg e Karl Liebknect, la nascita della Repubblica di
Weimar in Germania, l’avvento in Europa dei partiti comunisti. Ed evocano,
ovviamente, l’epidemia Spagnola che nella «penombra» di quegli eventi svettanti
nei titoli alti dei giornali, mieteva decine di milioni di morti: influente ma
immanente, incidente ma muta, letale ma implicita, devastatrice ma di fatto
impolitica. E con questa dimensione taciturna le pestilenze storiche in senso
lato ritornano a ben vedere nelle narrazioni: da Tucidide a Procopio di
Cesarea, da Boccaccio al Manzoni, dalle gazzette novecentesche a Camus, anche
quando esposte con toni emotivi e veementi.
E cosa avviene oggi, con il Covid 19?
L’infezione di oggi, di cui non si discute la gravità sul piano sanitario,
rimane una fenomenologia a sé, polimorfica, che da alcune prospettive non ha
davvero precedenti. Nelle parti più «progredite» della Terra è esplosa come una
carica atomica, mediatica prima ancora che epidemica, che ha interagito in modo
eclatante con la vicenda, gli ordinamenti, l’organizzazione sociale, gli
assetti giuridici e l’ethos civile di gran parte dei paesi. Era già
così quando si trattava di spegnere in maniera coesa il «focolaio Italia», e
l’Unione Europea in primis, che avrebbe potuto agire, non è stata
capace di farlo, per miopia. L’infezione da Covid non è «taciturna» come lo
erano la peste di Atene, quella di Giustiniano, quella del Trecento, quella del
1630, il colera del primo Ottocento e la Spagnola. Non è il «paesaggio»
silenzioso ma terribile e influente entro cui si compone un vissuto storico più
o meno nodale. Declinandosi bensì come paura, fino al parossismo, diventa
l’attore unico e dispotico attorno a cui ruota l’intera scena. Il fenomeno
epidemico intercetta in sostanza i mutamenti antropologici, la «peste» cioè di
cui si diceva. E qui potrebbe stare la chiave di tutto.
Quali allora le differenze di fondo tra passato e presente? Dove sta la
frattura?
Proviamo a mettere insieme alcuni fatti. La Spagnola, come si è detto,
causò un numero complessivo di morti di molto superiore a quello causato dalla
guerra scatenata dagli Imperi centrali. Eppure non produsse un’ossessione «su
misura». Non occupò la scena in maniera assolutistica. Non paralizzò. Fu
combattuta bene e male, con i mezzi sanitari e le risorse materiali del tempo.
E a dispetto della sua incidenza materiale e morale nella vita sociale non
causò il dissesto economico degli Stati, che invece conobbero, dopo il tracollo
momentaneo determinato dalla guerra, una significativa fase ascensionale, fino
al crack statunitense del 1929. I giornali europei dei primi anni venti
apparivano interessati, un po’ per calcolo forse, più alla strage dei Romanov
di Russia a Ekaterinburg che all’epidemia che aveva devastato i continenti,
destinata a sparire quasi anche dalla memoria pubblica, un po’ alla volta, nel
clima confuso di quegli anni, che incubavano altre «pesti», morali e politiche.
La condizione di oggi è, diversamente, quella di una crescente eccitazione,
alimentata anche da organismi tecnico-scientifici. Come si diceva, il Covid 19
appare perfettamente allineato con l’antropologia del panico, con ripercussioni
politiche e geopolitiche, sociali e istituzionali, che si profilano già immense
e laceranti. Si parla di nuove guerre fredde. Si registrano abusi, reticenze,
opacità di Stato. Si avvertono crepuscolarismi giuridici. Resteranno traumi.
Se, nonostante tutto, il 1969, l’anno della pandemia di Hong Kong, la Spaziale,
che solo in Italia fece decine di migliaia di morti, resta nella memoria di chi
allora era ragazzo come l’anno della Luna conquistata, il 2020 sarà ricordato
come il tempo «sospeso» del Covid 19, della reclusione a prescindere, della
caduta improvvisa, del distacco sociale, di mortificazioni infine, emozionali
oltre che civili.
Lei parlava di «pesti» morali e politiche, tra le due guerre mondiali.
Trova delle relazioni con quella che ha riferito all’oggi?
Sì, è così. Sono ravvisabili, seppure obliquamente, delle analogie tra
l’oggi e quella stagione del Novecento, quando l’Europa finì con il trovarsi al
centro di una grande catastrofe morale e civile, che avrebbe provocato
cinquanta milioni di morti e, tra questi, lo sterminio nei lager di milioni di
ebrei, omosessuali, zingari, oppositori politici. Nel 1935, quando Hitler si
proponeva ancora come un moderato «uomo di pace», mentre emanava le leggi di
Norimberga, Johann Huizinga congedava alle stampe La crisi della
civiltà, in cui con grande lucidità denunciava il declino della razionalità
occidentale, che passava attraverso le teorie e le persecuzioni razziali, la
repressione politica, l’umiliazione delle minoranze e, in ultima istanza, la
preparazione della guerra. Anche oggi si è ad uno snodo pericoloso, in cui
aleggiano progetti crepuscolari, che pure si presentano come innovativi e
progressisti, in grado di trarre il meglio dalle tecnologie telematiche per
migliorare la condizione umana. Si pianifica, e non è più uno scherzo, la
scuola «da remoto», si rigetta la storia come un cascame inutile, si manifesta
avversione per la conoscenza, per lo studio pensoso, mentre, accampando
presunte cause di forza maggiore, si tende a rovesciare i paradigmi della trasparenza.
Appare istruttivo infine che si cerchi di far passare la democrazia, aperta per
definizione, attraverso il cappio di piattaforme telematiche chiuse,
paradossali, gestite da privati, a latere, in maniera privatistica.
Quale futuro, a Suo avviso, per la società attuale?
A dispetto degli
allarmismi, la lettura del fenomeno epidemico fa ritenere, ragionevolmente, che
il peggio stia passando, soprattutto in Europa. L’infezione ha seguito dei
percorsi in fondo «logici», incanalandosi lungo le aree più interconnesse della
Terra. Proveniente dalla provincia industriale e finanziaria dell’Hubei, in
Cina, ha infettato maggiormente la Lombardia in Italia, la regione di Parigi in
Francia, le aree di Barcellona e Madrid in Spagna, lo Stato di New York negli USA,
le città più avanzate del Brasile, e così via. Sono state sconfessate,
evidentemente, le analisi di esperti e comitati tecnico-scientifici che
prevedevano catastrofi epocali in Africa, nell’America Latina più povera, nel
Sud d’Italia, nei campi profughi della Grecia. Eventuali ritorni nelle aree già
infettate si renderanno perciò «isolabili», di conseguenza gestibili in
condizioni di relativa normalità. Non c’è tuttavia da illudersi. La sarabanda
allarmistica sta già aggiornandosi, mossa ancora dai «fantasmi» che opprimono
questa modernità avanzata. Ed è importante che a tutto ciò venga posto un
argine. Si annunciano anni difficili ma il mondo civile può riuscire ad
agguantare il timone della storia. Occorrono iniziative imponenti di rinascita
morale e culturale, in difesa della democrazia. Si pensi alle resistenze
d’Europa, alle Primavere e al migliore Sessantotto, che pose in campo, al di là
dei radicalismi violenti, la generazione del Vietnam. Per stringere infine
sull’Italia, occorre affermare con chiarezza che le libertà e i diritti,
conquistati con affanni e olocausti, non sono negoziabili, le garanzie
costituzionali vanno difese a prescindere, come è da difendere l’istruzione,
dalle elementari all’università, dalle manovre di chi, ancora sotto l’influsso
delle «pesti», vorrebbe virtualizzarla. Si prenda atto che il mondo telematico
è solo un mezzo, da cui trarre informazioni, per organizzare meglio la vita.
Risalire china è, in definitiva, possibile, ma è fondamentale che il Paese
civile, ben al di là delle polarizzazioni dell'odio, alzi lo sguardo e getti in
campo, con determinazione, la sua forza tranquilla, le sue risorse morali e il
suo buon senso.
(Fonte: Letture.org)
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