Il guardasigilli Alfonso Bonafede |
di Salvo Palazzolo
PALERMO — «I boss di Palermo hanno di sicuro festeggiato per quelle
scarcerazioni — sussurra al telefono — so come ragionano, sono stato anche io
un mafioso. Hanno festeggiato per la disorganizzazione dell’antimafia».
Pasquale Di Filippo, ex killer di Cosa nostra oggi collaboratore di giustizia,
è turbato: «Ho letto su Repubblica che è andato ai domiciliari anche
Nino Sacco, componente del triumvirato che reggeva il mandamento di Brancaccio.
Adesso, ho paura. Perché io ho raccontato tanti segreti di quel capomafia, ho
svelato che era uno dei fidati di Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore
Riina. Sacco è legatissimo ai Corleonesi, che mi hanno condannato a morte. E
quella sentenza non è stata mai revocata».
È un fiume in piena l’uomo che a metà degli anni Novanta ha fatto arrestare
Bagarella e una quindicina di killer di Cosa nostra che hanno messo le bombe a
Roma, Milano e Firenze nel 1993. Anche Pasquale Di Filippo era nel gruppo di
fuoco di Brancaccio, ma rispetto agli altri aveva dei congiunti illustri: il
suocero Tommaso Spadaro, uno dei padrini più autorevoli di Palermo, e il
cognato, Antonino Marchese, fratello della moglie di Bagarella.
«Un giorno, nel 1991 — racconta — eravamo in tanti davanti al carcere
dell’Ucciardone, perché stavano per scarcerare mio suocero e tante alte
persone, per decorrenza termini. Poi, però, arrivò un decreto che bloccò tutto.
In Cosa nostra non fu presa affatto bene, perché quelli erano i tempi in cui ci
si aspettavano delle cose da certi ambienti delle istituzioni, ambienti a
noi vicini». Oggi, invece, secondo lei, cosa hanno pensato i familiari dei
376 detenuti, imputati per mafia e droga, che sono andati ai domiciliari nel
giro dell’ultimo mese e mezzo? Di Filippo dice: «Dopo le stragi Falcone e
Borsellino, lo Stato si è messo a fare seriamente la lotta alla mafia, i boss
lo sanno. E neanche loro si aspettavano tanta disorganizzazione e confusione.
Ma quando hanno capito che una grande maglia si era aperta, ne hanno
approfittato subito, con decine, centinaia di istanze. Ne è venuto fuori un
disastro, che non fa certo onore a chi è morto per mettere in carcere tutti
quei mafiosi». Intanto, le richieste di scarcerazione continuano ad aumentare.
E dentro le cosche un tam tam è iniziato a girare insistente: «Bisogna evitare
altro clamore», è sbottato un boss, e la sua esortazione è stata captata da una delle tante microspie che tengono sotto controllo il mondo sotterraneo delle cosche siciliane. Un invito a far presentare l’istanza magari a un familiare, in modo da bypassare il monitoraggio del Dap. Un invito anche a non far trapelare
le notizie di nuove scarcerazioni. «Loro le proveranno tutte — dice
Pasquale Di Filippo — perché fanno questo di mestiere: approfittare delle
occasioni per trarre il massimo del vantaggio. Ecco perché le istituzioni, in
cui ho piena fiducia, devono recuperare al più presto, facendo capire che si è
trattato solo di un momento di confusione e di disorganizzazione».
Il collaboratore fa una pausa e riprende: «Certo, non sarebbe dovuto
accadere. Perché Cosa nostra vive anche di segnali. E questo è stato davvero
brutto. Davanti ai mafiosi non si indietreggia, mai. Altrimenti ti fregano,
un’altra volta».
Repubblica, 9 maggio 2020
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