di Gabriele Romagnoli
Tra la fotografia in cui sorride dopo la laurea e quella scattata al
rientro dall’Africa ci sono 535 giorni di dolore. Una distanza incolmabile
Ci sono due fotografie emblematiche del destino di Silvia Romano. La prima
è quella che la ritrae il giorno della laurea. Ha un sorriso sguainato, uno
sguardo privo di riserve. I capelli sono tirati indietro, ai lobi ha due perle.
Indossa una giacca nera, mostra trionfante la tesi rilegata. E’ l’immagine di
una giovane donna borghese, un po’ conservatrice, che affronta fiduciosa il
proprio futuro. La seconda è quella di ieri, all’aeroporto di Ciampino,
rientrata dopo 535 giorni di sequestro in Africa. Indossa un hijab verde (il
colore dell’islam) piuttosto ampio, sopra un altro vestito dai colori forti,
tipico della tradizione locale. La copertura non è integrale, il volto è
incorniciato dal velo, ma si mostra.
Sguardo e sorriso ci sono, ma
inevitabilmente retrocessi rispetto a due anni prima, una distanza che possiamo
avvertire e non misurare. L’impressione è quella di una donna avvolta in un
trauma protetto da un mistero che cerca di venire a patti con il recente
passato per andare avanti. Due immagini, una sola persona. Come ci siamo
abituati a considerare: due fasi della stessa vita. Una in cui tutto sembrava
possibile e nulla avrebbe potuto minacciare gli slanci e le passioni. L’altra
in cui si è conosciuto il tocco del male e coprirsi è un modo, il più istintivo
e più semplice, per sopravvivergli. In realtà quell’involto verde non è
l’occultamento di una ferita e delle sue conseguenze, al contrario: né è la
rivelazione, perfino l’esposizione al pubblico, a saper guardare. Toccherà a
Silvia Romano dirci, nei limiti del suo diritto alla riservatezza che nessun
riscatto acquista, che cosa è successo in questo lungo tempo. Nell’attesa,
quelle due fotografie ci dicono già tanto.
La giovane laureata è una persona volitiva. Ha imparato fin da bambina
certi ideali che sono evangelici e pensa che vadano messi in pratica in maniera
concreta, nei luoghi dove più ce n’è bisogno e a favore chi meno è in grado di
fare da sé. Difficile immaginare all’incrocio di queste intenzioni
qualcosa di più indicato che la costruzione di un orfanotrofio per bambini in
Africa. Parte per il Kenya dunque, arruolata da una piccola onlus marchigiana.
La destinazione accomuna molti italiani, i più per motivi assai meno nobili.
Silvia Romano non è una assoluta sprovveduta: è già stata lì un’altra volta. Le
manca la cognizione del possibile dolore. Come molti, pensa di essere immune,
magari che la bontà dei propositi faccia da schermo.
Che il luogo esponga a rischi lo racconta la storia recente: per violenze a
scopo di lucro hanno perso la vita turisti, missionari, medici italiani. In un
villaggio vicino a quello dove sarà rapita Silvia Romano e proprio in un
orfanotrofio è stata uccisa a fine 2015 Rita Fossaceca, radiologa che, con
contagioso entusiasmo, aveva convinto a seguirla i genitori, lo zio prete e due
infermiere del suo reparto. Uomini armati di machete l’hanno colpita mentre
cercava di difendere la madre a cui volevano strappare la fede. Ha ricevuto una
medaglia d’oro al valor civile alla memoria. In parte dell’opinione pubblica la
morte cancella il peccato d’ingenuità o temerarietà che un sequestro a lieto
fine (ma tutt’altro che lieta durata) sembra ingigantire.
Certo, Silvia Romano ha probabilmente commesso errori, come tutti quelli
che affrontano situazioni estranee e confidano che gli stessi gesti abbiano
ovunque i medesimi effetti. Non ha valutato di essere un obiettivo facile e
redditizio per un’organizzazione che controlla il territorio e ha bisogno di
finanziarsi. E’ caduta nella trappola. Due giorni fa ne è uscita viva e ieri si
è ripresentata al suo mondo, alla sua famiglia, al Paese intero che la guardava
scendere dall’aereo. Ha ammesso che quelle vesti non erano un caso, ma una
necessità: il prodotto della sua conversione all’islam. E’ diventata musulmana,
non fondamentalista. Indossava una stoffa coprente, non una cintura esplosiva.
Ha abbracciato una religione diversa da quella di partenza. Potrebbe aver
abbracciato chi la professa e al contempo diffonde violenza e terrore, ma
questo non fa di lei una terrorista. Ha attraversato molte foreste. Più
probabile che dentro di lei diventassero deserti. Vuoti senza punti di
riferimento. Per sopravvivere occorre darsi una ragione. A volte, convincersi
che la ragione esista dove non la si trovava e ancora non la si trova, ma se è
l’unica disponibile, che altro resta? Di fronte al dolore più grande, alla
morte di un figlio, allo sterminio dei cari, può capitare che un ateo diventi
credente perché l’esistenza di un dio può giustificare un disegno superiore,
rappresentare l’unica residua speranza. In una realtà ostile il mimetismo è una
risposta istintiva, animale.
E’ probabile che Silvia Romano sia sincera quando dice di essersi
convertita senza coercizione. Può essere stato un meccanismo di difesa. Umano,
molto umano. Come lo è la successiva rimozione. Per l’elaborazione occorrono
tempo, forza, distacco. E non è agevole: tocca accettare una cesura, uno
scarto, negare una parte della propria esistenza e consegnarla alla volontà
d’altri. E’ il post trauma che ha fermato tanti. Il vero velo questa giovane
donna lo porta sui 18 mesi di prigionia. Per forza, per scelta o per ora.
La Repubblica, 11 maggio 2020
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