di ROBERTO SAVIANO
Avevo appena finito di scrivere l’articolo che leggerete di seguito quando
mi arriva, tramite questo giornale, la lettera toccante e sincera di una
giovanissima infermiera che ogni giorno assiste malati di Covid. Ecco, ho
pensato che, senza saperlo, le parole che seguono le avevo scritte proprio per
lei. Qualche giorno fa, il 17 aprile, è stato un anno dalla morte di Massimo
Bordin e sul manifesto Peppe Provenzano, un intellettuale politico
alla guida del Ministero del Sud, lo ha ricordato parlando di Sciascia. Un
passaggio tra gli altri mi ha colpito: «Garantisti si dev’essere, come vuole la
Costituzione, ma il radicale Bordin voleva squarciarne il velo di ambiguità. E
prendeva a prestito una citazione sciasciana ritrovata da Guido Vitiello: “Io
non sono un garantista: sono uno che crede nel diritto, che crede nella
giustizia”. Per poi chiosare: “Sciascia credeva nella giustizia secondo
diritto, che è fatta anche di sostanza”. Quella sostanza, io credo, per
Sciascia e per Bordin, era la giustizia sociale».
Il Diritto e la linea della palma, che come profeticamente Sciascia intuì,
si sarebbe via via alzata verso nord; e non a caso quella “ascesa” è coincisa
con l’acquisizione di ampie fette dell’economia settentrionale — e
dunque del Potere — da parte delle Mafie. E parallelamente con la nascita
della cultura dell’omertà a latitudini inaspettate.
Cosa è stato il Garantismo in Italia negli ultimi 25 anni? Dove è
rintracciabile quell’equilibrio tra Diritto e giustizia sociale? Io credo in
pochissimi ambiti, ed è per questo che non esiste una cultura garantista di
massa, ma solo una sotto cultura “diversamente giustizialista” che si oppone a
quella dichiaratamente giustizialista. E lo fa per difendere i privilegi di chi
ha ricchezza e potere, fermandosi appena si fa forte il “tanfo” della povertà e
della marginalità. Che cosa è la giustizia sociale per questa cultura, se non
un orpello? È per questa ragione che il garantismo italiano negli
ultimi 25 anni è stato maggioritariamente una storia di puttane, che hanno sbandierato
Beccaria solo per vendersi meglio. Questa è la matrice culturale che anche
oggi, al cospetto della più grande tragedia dal dopoguerra, sta portando molti
sedicenti garantisti a chiedere a gran voce che i processi dovranno farsi nei
tribunali, che è un modo per dire che processi non dovranno esserci. Eppure, un
garantista dovrebbe conoscere bene la natura del processo, che nasce per
accertare i fatti, e non la verità.
Al Nord, ho trovato sempre sostegno quando dalla mia terra si levavano le
critiche: i panni sporchi si lavano in famiglia. Ricordo le valanghe di insulti
provenienti da quelli che si erano autodefiniti “del mio mondo” durante la
crisi dei rifiuti in Campania. Un tradimento e io un traditore. Non solo io,
ovviamente, tanti scrissero su quel tempo e su quello che accadeva in Campania
e ai campani. Non parlavo solo delle malefatte del Potere, ma anche della
incapacità della gente normale, della borghesia, di ribellarsi a una
occupazione clientelare del potere che aveva condotto al disastro. Erano troppo
pochi, ma incredibilmente valorosi, quelli che alzavano la testa per difendere
i propri territori e le proprie vite. Per quale ragione mai, oggi, si dovrebbe
pensare che al cospetto del più grande disastro in termini di perdite umane da
settantacinque anni a questa parte bisognerebbe “evitare i processi” o non
analizzare le ragioni, anche culturali e antropologiche, che lo hanno
determinato? Solamente il Sud è possibile oggetto di analisi sociologiche?
Solamente al Sud si può parlare di omertà? No signori, le cose non stanno così.
La Lombardia ha collassato perché ha distrutto il suo tessuto sociale, e
questo non lo ha fatto certo il virus, è accaduto prima. E non c’entra nulla il
Dio danaro, lo sterco del demonio e altro armamentario verbale grossolano.
C’entra l’idea di giustizia sociale. Quanto ha contato la voce degli operai
lombardi in questi mesi? Qualcuno gli ha chiesto se si sentivano sicuri a
continuare a lavorare senza protezioni? Quanto ha contato la voce dei medici e
degli infermieri che hanno assistito allo smantellamento della parte meno
“produttiva” di quel sistema sanitario, per poi trovarsi a morire, per mancanza
di dispositivi di sicurezza e per decisioni — sì, decisioni— che nel pieno
della crisi ne hanno aggravato il peso sul piano dei contagi? Questi fatti
dovranno essere accertati. Il Garantismo vive nelle carceri al
fianco degli ultimi tra gli ultimi dei condannati e dei detenuti in attesa
di giudizio per via di una legge proibizionista in materia di droga che quasi nessuno
mette in discussione. Il Garantismo vive sulle navi delle Organizzazioni Non
Governative accusate di salvare vite umane. Solo i veri garantisti, e sono
assai pochi, si sporcano le mani con questi “poveracci”. Il Garantismo italiano
è morto quando si è venduto a Berlusconi, prima, e ora a Salvini. Poiché mai
sono stati negli ultimi anni dalla parte degli ultimi. E oggi, come era ovvio,
sono sulle barricate nel tentativo di sventare i processi e, per farlo, dicono
e scrivono che non si processa lo spirito lombardo. Anche se il tasso di
mortalità in quella regione si aggira intorno al 20% e in valore assoluto le
morti si avvicinano a quelle statunitensi (in un Paese che però ha circa cinque
volte i nostri abitanti).
E anche quelli che, in buona fede, protestano la necessità di difendere un
sistema di relazioni sociali, culturali ed economiche virtuose, non
comprendono il rischio di non elaborare il lutto, per non guardarsi a fondo
dentro. Ma le loro argomentazioni non sono convincenti: se la Lombardia non va
criticata perché produce il 25% del pil nazionale, allora sappiate che dietro
l’angolo c’è il collasso morale. Quando le voci di chi ha perduto un caro, di
chi ha vissuto l’orrore del contagio, delle sirene delle ambulanze, dei carri
dell’esercito che trasportavano via le troppe salme, si renderanno conto che è
a loro che si sta, già adesso, chiedendo di tacere, l’implosione sarà
inevitabile.
Quelli che oggi pensano che alla fine ai lombardi basterà tornare allo
shopping e agli aperitivi, per tornare a essere quelli di prima, stanno
offendendo per primi quel dolore, che merita spiegazioni, che merita di sapere
le cose come sono andate. E la politica, questa politica, non lo farà mai,
poiché già adesso ha alzato il tappeto per spingerci sotto la polvere, ma
quella polvere sono storie di vite interrotte. Il Caso è stato ed è parte della
vita dei meridionali, che non hanno mai potuto pensare davvero che pagando
potessero farlo sparire dalle proprie vite, individuali e collettive. Hanno
imparato ad adattarsi, ma hanno anche imparato a guardarsi dentro e a
raccontare i propri demoni. Perché il Sud si poteva raccontare e potevano farlo
anche quelli che venivano da fuori, anche quelli che, in maniera mirabile, ne
hanno descritto non solo le miserie materiali, ma anche quelle morali.
È bene che il Nord e la Lombardia lascino spazio alla indignazione di chi
si è trovato all’improvviso nudo, poiché se non lo faranno ne saranno travolti,
ne saremo travolti. Ma se noi italiani ci guarderemo per la prima volta,
osservando le nostre ferite, forse, riusciremo finalmente ad abbracciarci e ad
essere una sola cosa. Allora sì, ce la faremo. Io ne sono certo.
La Repubblica, 20 aprile 2020
Nessun commento:
Posta un commento