di GIANCARLO DE CATALDO
«Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si
chiama acqua, un altro ancora si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e
arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia». Quando scrive
la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare
, Luis Sepúlveda è già un autore conosciuto. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore e il successivo Un nome da
torero hanno edificato intorno alle sue opere l’immagine di un audace e
spericolato narratore che serpeggia fra avventura, sentimento, ecologia. La biografia, che sconfina nella leggenda, aiuta: a ventidue anni questo
ragazzo che sogna di fare il regista di teatro è fra i giovani sostenitori di
Salvador Allende, il presidente socialista del Cile assassinato dai generali
golpisti capeggiati da Augusto Pinochet, il tetro figuro dalle lenti a specchio
e dalla voce chioccia. Seguono cattura, galera, tortura, esilio, un’esperienza
di lotta con i sandinisti, infine il ritiro ad Amburgo e la decisione di
dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.
La Gabbianella, come tutti la chiamiamo, diventa un bestseller mondiale, la gentile bibbia laica per generazioni di bambini che scelgono come proprio eroe di riferimento Zorba, il gattone nero che adotta suo malgrado – ma diventandone poi il padre e mentore – la piccola Fortunata. Il magnifico film d’animazione che ne trae Enzo D’Alò resta un esempio altissimo del rapporto virtuoso che può instaurarsi fra parola e immagine. L’ironico guerrigliero Sepúlveda mostra la sua anima segreta di poeta dal respiro universale.
«Cosa fa in modo che un libro, o più ancora un’intera opera, risvegli
l’entusiasmo di milioni di persone?» si chiede un suo grande amico, lo
scrittore spagnolo José Manuel Fajardo. Non certo le alchimie di mercato, alle
quali il talento ribelle del ragazzo di Ovalle resterà sempre indifferente.
Piuttosto «la sacra alleanza con i lettori che non passa per il denaro, ma per
la letteratura». Parole sante. Se mai c’è stato un autore profondamente,
convintamente trasversale, quello è stato Luis Sepúlveda: caro al lettore
colto, al critico, all’intellettuale più arcigno, al militante più occhiuto, ma
anche capace di far sognare legioni di bambini, e, perché no, di divertire
inquietando, o, se preferite, di inquietare divertendo.
Sepúlveda per gli intimi era Lucho. Un nome di battaglia che evocava la
lotta, ma anche, per noi italiani, e lui amava profondamente il nostro Paese, e
parlava benissimo la nostra lingua con un’inimitabile, fascinosissima cadenza
lenta e latina, la luce. Luis Sépulveda non ha mai smesso per un istante
di lottare contro l’ingiustizia sociale, la prevaricazione, la violenza cieca
della dittatura che aveva sperimentato nel Cile. La parola, l’arte del narrare
sono state le sue armi. E non ha mai smesso di mettere in guardia dai pericoli
del fascismo inconsapevole che alberga, indesiderato ma ingombrante ospite,
dentro tanta parte di noi: sotto questo aspetto, viveva come una profonda
ferita esistenziale la rivincita delle destre in America Latina. Nello stesso
tempo, la sua scrittura non è mai militante nel senso plumbeo del termine. «La
letteratura engagée degli anni Sessanta e Settanta non ha più ragione
di esistere» spiega in una lunga e bella conversazione con l’amico Bruno
Arpaia, «non credo nello scrittore o nell’intellettuale organico, perché questa
organicità ti costringerebbe a sacrificare la letteratura, la libertà di
espressione. Credo invece in una specie di impegno, diciamo, più essenziale».
Essere nel mondo, partecipare, ma, soprattutto, narrare, narrare, narrare.
Narrare restituendo la voce agli ultimi, agli esclusi, ai vinti: che siano gli
Shuar, indios riduttori di teste, o, come in Storia di una balena bianca
raccontata da lei stessa, il grande cetaceo custode dei mari, la Moby
Dick che zio Pepe gli regala a quattordici anni e che scatena nel suo giovane
cuore il desiderio del mare, del viaggio, della sfida a ogni confine e
frontiera.
L’ultima volta che ci siamo visti è stato lo scorso ottobre, a Parigi, per
i quarant’anni di Métailiè, la sua storica casa editrice francese. Lui e la sua
Carmen, la poetessa perduta da giovane e ritrovata dopo tante peripezie,
ballavano la "conga" sulla pista di una classica "boite"
circondati dall’affetto di scrittori d’avventura convenuti da ogni parte del
mondo. Nessuno poteva immaginare che il maledetto virus l’avrebbe rapito: ma
era un uomo generoso, si è contagiato a un festival, in mezzo ai lettori che lo
adoravano e ai quali non si era mai negato. Non smetteremo mai di ringraziarlo
per le meravigliose emozioni che ci hanno regalato le sue pagine ricche di
passione, ironia sulfurea e delicata poesia. Per i suoi indimenticabili eroi
ribaldi e litigiosi, el señor Juan Belmonte, il vecchio Antonio José
Bolivar, l’anarchico Pedro Nolasco de L’ombra di quel che eravamo
, il killer sentimentale, «quegli occhi verdi nascondevano il balsamo per
eludere i sogni»… Non smetteremo mai di ringraziarlo per la sua idea di una
letteratura che non punisce, maltratta, allontana il lettore, ma che, al
contrario, gli si offre libera e libertaria, come libera e libertaria è stata
tutta la sua vita. «Senti la pioggia. Apri le ali» miagolò Zorba «ora volerai,
il cielo sarà tutto tuo».
La Repubblica, 17 aprile 2020
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